mercoledì 2 gennaio 2008

L'interruttore del buio

Trovare un parcheggio sotto le feste è sempre un problema, quando poi piove come oggi, è quasi impossibile. Provo la prossima a sinistra, è la seconda volta che passo da qui, magari qualcuno è andato via proprio ora. Sì, dopo un passaggio di tergicristalli vedo che è così. Allora accelero, accosto e comincio la manovra proprio quando uno schianto illumina a giorno il selciato, divorando in un baleno le luci della festa. Quel tuono che scuote l'aria e strappa questo cielo peso mi percorre tutta; certe paure non hanno tregua, t’accompagnano fedeli. Ora che non ho più le coperte come rifugio, né le parole di nonna Adele a consolarmi, in questo abitacolo di vita resto io. Da piccola sognavo di essere grande, ora rivorrei sentire in quel lettino la sicurezza della mia tana.
Mentre aspetto che il portone si apra, scrollo dai capelli la pioggia che ha trapassato l'ombrello, e penso che un riparo non è mai abbastanza.
Il sorriso impeccabile della segretaria mi accoglie con la consuetudine che si addice in questi luoghi, apparentemente familiari.
 Siamo un pochino in ritardo sugli appuntamenti, si può accomodare in sala d'attesa signora Pestati, la chiamerò io. Prego.
 Grazie, aspetterò.
Che posso farci, vestita del nome che mi porto addosso non ho fatto altro che aspettare.
La filodiffusione passa la sinfonia numero sette di Beethoven. Accidenti quanto la musica può dipingere la vita: dolce e amara, quieta e agitata, debole e forte. Sfoglio una rivista per ingannare il tempo. Ma chi voglio ingannare? Neanche il tempo sta al gioco.
 Signora Pestati, prego, si accomodi, è il suo turno.
Il mio turno? E se non volessi fare questo giro? No, avanti un altro. Questa volta salto il turno, grazie. Ma da grandi non si può. Certe responsabilità sono nostre, solo nostre, e anche quando pensiamo di aver saltato il turno, abbiamo solo rimandato. Così entro in quella maledetta stanza, dove tutto è bianco, candido. Meno che me.
 Buonasera Marinella, come va?
Mi siedo, apro la borsa, prendo la busta – bianca anch’essa – e gliela do.
 Complimenti Marinella, facciamo un fratellino a Roberta. Bene.
Un silenzio greve ricopre quelle parole.
 Dottore, questo bambino non era previsto...io....io...non me la sento, sono in piena crisi con il mio compagno, ci stiamo separando, non so neanch'io com’è andata ...io...io....voglio abortire. Mi aiuti.
 Marinella, si prenda un po' di tempo per riflettere. E' una scelta difficile, non sia affrettata, non si faccia prendere dal panico, vedrà che tutto si sistema.
Sistemare, mettere a posto. Questo lo metto qui, quello lo metto là; e io dove sto? Dove mi metto? Il mio bambino dove lo voglio mettere? Il mio bambino non lo voglio....non lo volevo. Io sto dalla parte del peccato. So stare solo lì.
 Dottore, sono sicura.
 Marinella, mi spiace, io sono obiettore. Le dirò dove andare e a chi rivolgersi in ospedale, là troverà colleghi che la possono aiutare.





Da fuori, la finestra del soggiorno trasmette le ondate bluastre della sua nuova tv al plasma. La camera di Roberta, il calore delle sue bambole di pezza, il resto della casa è una emanazione di buio; è lì che infilo la chiave nella toppa, senza un interruttore per la luce.
- Ciao, sono arrivata.
Appoggio la borsa, mi levo il cappotto, e subito sento addosso lo sguardo severo di Luca. Sa dov'ero. Sa di me.
Preparo una cena a fatica con la nausea che avanza; oppure è lo stomaco che si chiude, come quando ero bambina ed avevo paura. Allora digiunavo a dispetto degli appelli della mamma, ora mi forzo a tirare giù, ma non è una buona idea, e nel giro di poco sono in bagno a vomitare.
Appoggiato sul comodino, il libro che sto leggendo. Creatura di sabbia è il suo titolo, e anch’io vorrei essere quel titolo e perdermi nel vento.
Ma non posso leggere, solo azionare l’interruttore del buio.
 Buonanotte.
 Non è solo tuo. È anche mio, e io lo voglio.
 Tu vuoi me, e vuoi il bambino per tenermi.
 Non è giusto che una decisione del genere spetti solo alla donna; e tu non puoi approfittarti di questo. Non me lo devi fare.
 Mi sono fidata di te. Ho sbagliato.
 Ma cosa dici?
 Quando siamo in crisi, come noi ora, pensare di risolvere tutto a letto per sentire di possedere l'altro e rassicurarsi è da incoscienti.
 Vuoi dire che l'ho fatto apposta?
 Mi avevi giurato che eri stato attento, che potevo stare tranquilla, che non c'era bisogno della pillola del giorno dopo. Crederti, nonostante tutto, è stato il mio errore.
 Così hai deciso di vendicarti.
 Luca, non c’è più amore e senza amore non c’è vita. Così penso.
 No, non ci sto. Mi avrai contro. Hai capito?
 Siamo contro su tutto, già da un po’.



Le sette.
Fuori il buio continua, le strade di lampioni vivono un silenzio rotto solo da poche auto di passaggio. Sono alla guida; ho alzato il volume della radio, ho voglia di stordirmi. Se facessi uso di droga, questo sarebbe il momento giusto per una dose. Parcheggio vicino all'entrata, pochi passi e sono alla portineria.
Un’infermiera con gli occhi assonnati aspetta la mia domanda. Riesco solo a dire il mio nome. Lei capisce e mi cerca dentro una lista verticale di nomi di donna.
 Primo piano a destra, in fondo al corridoio c'è una saletta. Attenda lì.
Siamo una decina, sole, con gli occhi del silenzio. Dopo un po’ s’apre una porta:
 Signore, una per volta nella stanza 10, secondo l'ordine di arrivo. Sarete visitate e farete l'accettazione.

Le otto.
Ognuna di noi è nel letto destinatole, e insieme riempiamo due stanze vicine, con il bagno in mezzo. Intanto fuori la città si è svegliata, tutto scorre come gli altri giorni; invece a me pare che il tempo si sia fermato, che si sia cristallizzata l'esistenza. Sono con gli occhi chiusi, quando sento avvicinarsi qualcuno. È il mio medico, è venuto a trovarmi. Non dice niente. Mi carezza una guancia e accenna ad un sorriso. Poi, prima di andarsene:
 Forza, Marinella.
Chiamano a gruppi di tre. Io sono nel primo gruppo. Mi ero immaginata di entrare in sala operatoria sopra una barella, già sedata. Invece entriamo camminando sulle nostre gambe, in piena coscienza. Ci fanno sedere nel corridoio, dove si aprono tre porte, dalle quali intravedo i tavoli operatori e i ferri. È un viavai di medici ed infermieri da far girar la testa.

Le nove.
Ora è il mio turno, dalla porta di fronte si affaccia un'infermiera che mi invita ad entrare. La stanza ha le finestre chiuse, è buia, solo la grande luce sopra il tavolo operatorio. Salgo tremando. Dice sia normale, dice sia dovuto alla temperatura di questo posto. Mi iniettano un sedativo nelle vene, è la mia dose, o almeno così dovrebbe essere. Il mio stato di coscenza non scende, sono ancora vigile, quando iniziano.
 Stia tranquilla signora, non sentirà niente.
Forse lo dicono a tutte. Sanno benissimo che non è così. D'altronde, l'onestà non è di casa in questo frangente, non è utile a nessuno.
Dopo aver inserito il divaricatore, accendono uno strumento che non riesco vedere. Sono in cinque intorno a me, tre davanti e uno per lato. Dei tre davanti, quello centrale è seduto, ed è il medico che opera: il mio complice. In mezzo al rumore dei ferri che si passano, sento un soffiare, di aria compressa. Quando sono dentro di me, non è più un soffio, è un grido d'aria prepotente che si confonde all'urlo indomabile e acuto, sparato dalla mia gola. Dopo è un grattare, raschiare infinito. Metto la mano libera tra i denti e stringo forte, forte. Non voglio più urlare. Mi vergogno.
 Signora, ancora un po' di pazienza, dobbiamo pulire bene.
Pulire. Cosa ne sanno questi. Certe cose non si possono pulire. Certe cose sono indelebili.
Sono uscita in barella, avvolta in tre coperte per placare il freddo, quello corporeo. Continuo a tremare e a piangere, in silenzio. Non sono pentita. Sono consapevole. Consapevole di aver ucciso più di un futuro, e non solo il mio. Il suo primo e ultimo natale.

Sono le dieci.


Roberta Colombini

Del suo sangue

L'avevano trovata in un mare di sangue. Il suo. Il giorno dopo riempiva pagine e pagine di giornali.
Sei contento papa'? Tutti parlano di me. Della tua Savia. In ufficio, a scuola, a tavola; non si parla d'altro.
Una sola parola aleggiava nell'aria: agghiacciante; semmai si potesse racchiudere in una parola, la scena che si era presentata agli occhi degli addetti ai lavori.
Era stesa sul pavimento di cucina. La faccia, quello che ne rimaneva, rivolta al soffitto. Le avevano portato via anche lo sguardo. Al posto dei suoi occhi da cerbiatto, un unico solco.
Centoventi colpi. Centoventi affondi, nella sua carne d'ambra; ora ridotta a brandelli attraversati da fiumi di sangue, ormai rappreso.
Papà, mi vedi ancora bella, vero? Si lo so, il tuo amore è grande.
Eugenio non ha retto il colpo, anche se i carabinieri hanno evitato accuratamente che vedesse il corpo di sua figlia ridotto a quel modo, ha capito l'entità della tragedia e non fa altro che ripetere, come una nenia: “Si doveva sposare tra un mese. Era bellissima”.
Al suo funerale tutta Boverata assiste raccolta in uno spettrale silenzio. Nella piazza davanti alla chiesa tutta la gente non riesce ad entrare; chi è arrivato piu' tardi si distribuisce nei vicoli che circondano la piazza. Vista dall'alto oggi Boverata, pare una margherita e i vicoli sono i suoi petali. Savia amava le margherite, da piccola con Lucia, si divertivano a raccoglierle e a giocare al m'ama non m'ama. Finiva sempre che non l'amava nessuno, allora Lucia se la stringeva forte a sé dicendole: è un gioco Savia, è solo un gioco.
Ora Lucia, è seduta nella seconda panca, accanto a Giulio; il suo fisico asciutto insieme al volto così scarno la rendono scheletrica, intanto Giulio nasconde due occhi rossi e colmi di lacrime dietro ad un paio di occhiali scuri e spesso, quasi per ironia della sorte, si fa sorreggere il corpo possente e muscoloso dalle esili braccia di Lucia.
Vedi papà? Ricordi? Ricordi quante volte ti dicevo che Giulio non era geloso, che capiva quanto era importante per me Lucia e quanto eravamo unite.
Ma Eugenio, seduto nella prima panca, ricorda i giorni che usciva di corsa da lavoro per andare a prendere a scuola Savia, ricorda quante preoccupazioni e speranze riempivano la testa di un uomo abbandonato da una moglie, con una figlia di appena dieci anni da crescere. Per la gente di Boverata resta “il singolo”; così lo chiamano, un po' perchè non ha piu' avuto una donna, un po' per il suo carattere serio e introverso che con gli anni si è fatto ancora piu' scostante.
Si gira spesso dietro, verso Lucia, ma il suo sguardo non cerca conforto.
Non c'è sonno la notte, senza piu' Savia. Non c'è sonno per la gente di Boverata che si domanda se il mostro è uno di loro. Non c'è sonno per Giulio che non riesce a spiegarsi. Non c'è sonno per Lucia che si sente morta anche lei. Non c'è sonno per Eugenio.
Papa', quanto amore disperso. Quanto amore mancato.
Nei giorni successivi al funerale gli inquirenti hanno scandagliato la vita di Savia, in cerca di un indizio, un movente; hanno interrogato per ore Giulio. Ai loro occhi, l'omicidio ha tutte le caratteristiche di un delitto passionale, ma Giulio ha un alibi di ferro: quel giorno era a Milano per un concorso. Anche Lucia viene interrogata piu' volte, anche se a detta del medico legale, i colpi sferrati su Savia sono opera di mano maschile; l'assasino potrebbe aver usato un martello, o qualcosa di simile. Lucia è scossa, cade spesso in contraddizione, come se dovesse nascondere qualcosa. La notte prima dell'omicidio era rimasta a dormire a casa di Savia, capitava spesso, era un abitudine nata ai tempi della scuola; Lucia ci scherzava su. Eugenio stasera hai ospiti, se ti sentiamo russare facciamo come quella volta con il sale, ma stavolta non ci fermiamo a qualche manciatina, ci versiamo tutto il pacco, capito?
Eugenio, stringeva gli occhi e tirava le labbra sotto quei grandi baffi bianchi, a mo' di sorriso; il massimo che sapesse fare.
Papa', quella notte non hai russato. Mai. Forse non hai neanche dormito. Chissà che cosa ti passava per la testa. Chissà se hai solo origliato, oppure, come fanno i bambini, hai sbirciato dal buco della serratura. Chissa' se inizialmente hai pensato, che stessimo solo giocando. Papa', se il giorno dopo a pranzo, non ti avessi detto che non mi volevo piu' sposare, mi avresti accompagnato all'altare comunque? Papa', perchè non mi hai fatto domande? Papa', perchè non hai voluto sapere?

Roberta Colombini