martedì 12 giugno 2007

Strane coincidenze

“Suo padre la mise al pianoforte a cinque anni, e a dieci Maurizia Rugeri si esibì nel suo primo concerto al Club Garibaldi, vestita di organza rosa e scarpine di vernice, dinanzi a un pubblico benevolo composto in maggioranza da membri della colonia italiana. Al termine le depositarono ai piedi diversi mazzi di fiori, e il Presidente del club le consegnò una targa commemorativa e una bambola di porcellana adornata di nastri e pizzi.
- Ti salutiamo Maurizia Rugeri, come un genio precoce, un novello Mozart. I grandi palcoscenici del mondo ti attendono, - declamò.
La bimba attese che si spegnesse l’applauso, e al di sopra del pianto orgoglioso di sua madre fece udire la propria voce con alterigia inattesa.
-Questa è l’ultima volta che suono il piano. Io voglio diventare una cantante, annunciò, e uscì dalla sala trascinando la bambola per un piede”.
Finito di leggere Alberto si tolse gli occhiali e guardò Michele: “Uhm… E allora?”.
“Come ! E’ l’incipit!”.
Alberto decise che per quel giorno non avrebbe perso la pazienza, appoggiò gli occhiali sul foglio, si allungò sullo schienale della costosissima poltrona del suo studio e disse: “Mi sembra o ti avevo chiesto una sceneggiatura per un film da ambientare in Africa ai primi del Novecento?”.
“Appunto, questo è l’incipit…. E’ che… prima di continuare volevo capire se il soggetto ti poteva piacere” balbettò a mezza voce Michele.
“Sinceramente a volte non capisco se mi prendi in giro o se sei proprio così, un misero fallito che si vende per un grande scrittore”, fece una pausa e poi da consumato attore quale era stato riprese: “Vedi caro Michele, il tuo problema è la bottiglia, se smettessi di bere e ti concentrassi un po’ di più riusciresti a tirare fuori qualcosa di buono. Come del resto hai fatto già in passato nei pochi momenti di lucidità che hai attraversato”.
La voce di Alberto era diventata più dura e il tono più alto, l’occhio destro aveva cominciato ad andare per la sua strada, chiaro segnale che si stava innervosendo.
A Michele sembrò che la stanza si facesse sempre più grande, così come i mobili che l’arredavano, mentre lui si faceva sempre più piccolo e la faccia di Alberto era diventata quella di un mostro che sputava parole che lui non riusciva più né a capire né a sentire. Sarà stata la paura o il bicchierino di whisky che si era fatto a digiuno prima di entrare nello studio di Alberto Serristori?
“Sì, Alberto, in effetti sono un po’ in ritardo sulla consegna, ma lo sai, ultimamente me ne sono successe di tutti i colori e…”.
“Sono stufo delle tue scuse idiote, hai avuto più di un mese a disposizione e te ne vieni con queste dodici righe in croce. Ma con che coraggio mi chiedo?”. I suoi buoni propositi di non perdere la pazienza erano già un ricordo lontano, Alberto schiacciò il pulsante rosso accanto al telefono e tuonò: “Signorina, mi porti un bicchier d’acqua, presto”.
Non aveva ancora finito la frase che la segretaria era già entrata nell’ufficio con una caraffa d’acqua e due bicchieri.
-Forse era meglio se non gli portavo nulla e mi davo malato– Approfittando di questa interruzione Michele stava cercando di mettere insieme una strategia d’attacco che non permettesse ad Alberto di replicare.
“Giuro che per lunedì ti porto anche il seguito. Dammi quest’ultima possibilità e ti prometto che non te ne pentirai”.
Alberto lo guardò in cagnesco, poi lanciò un’occhiata alla pendola appesa al muro e disse: “Entro lunedì a mezzogiorno devo avere l’intera sceneggiatura sulla mia scrivania. Se non rispetterai questa scadenza ti consiglio di cambiare città”. Premette di nuovo il pulsante rosso e con tono che non ammetteva repliche, comunicò alla Signorina Franca che il signor Ferrari era pronto ad andarsene.
Michele si alzò e cominciò ad indietreggiare verso l’uscita col cappello tra le mani producendosi in una serie di inchini, ringraziamenti e promesse varie, fino a quando non inciampò nella porta che la solerte signorina aveva contemporaneamente aperto.

-E anche per oggi è andata!- pensò Michele infilandosi il cappello una volta varcato il portone di quella che a dire di tutti, era la più importante casa di produzione della città.
Un rapido sguardo all’orologio: le undici e quaranta – giusto in tempo per un aperitivo prima di pranzo- pensò tra sé e sé e si diresse senza indugio verso il bar di Mario.
Stava sorseggiando il solito gin-tonic seduto al bancone quando entrò Elettra Colonna, la rampolla di una delle più ricche e influenti famiglie di Roma. Si erano conosciuti ad una festa nella quale Michele, come al solito, si era imbucato al seguito di Antonio, il fotografo più in voga del momento. Ricordava di essersi ritrovato a parlare con Elettra per più di un’ora e ricordava anche che la fanciulla era rimasta alquanto colpita dal suo fascino. Del resto Michele, era un abile conversatore, colto, spiritoso e molto galante, doti grazie alle quali riscuoteva un discreto successo con le donne.
La ragazza si diresse spedita verso un tavolo al centro del locale, dove una sua coetanea la stava aspettando. Attraverso gli specchi dietro al bancone Michele osservava comodamente le due ragazze senza doversi nemmeno scomodare a voltarsi, ma prendendosi tutto il tempo per studiare il suo ingresso in scena.
Dopo una decina di minuti, scese con noncuranza dallo sgabello e, bicchiere alla mano, si diresse verso il tavolo di Elettra. La ragazza, che stava parlando animatamente con l’amica, quando lo vide arrivare si illuminò in volto con un grande sorriso e invitò Michele ad unirsi a loro.
“Che piacere, rivederti! Permettimi di presentarti Claudia, una mia cara amica”.
Con un gesto plateale Michele prese la mano della ragazza e fatto un mezzo inchino disse: “Enchanté, mademoiselle!”.
Elettra e Claudia si guardarono ridendo e Michele si sedette al loro tavolo.
“Allora ragazze! Che si dice di bello in giro!”.
“Stiamo organizzando un fine settimana nella villa dei miei genitori a Capri” disse Elettra, e aggiunse subito dopo: “Potresti venire anche tu? Hai già degli impegni per i prossimi giorni?”.
Michele la guardò sorridendo, in un baleno vedeva davanti a sé la prospettiva di un fine settimana di puro spasso al mare, tutto spesato; oppure calde e interminabili giornate in solitudine a cercare di scrivere una sceneggiatura dalla quale sarebbe dipeso il suo futuro.
“In realtà niente che non possa rimandare. Vengo volentieri. Quando si parte?”, le parole gli uscirono dalla bocca con una naturalezza che stupì anche lui.
“Domani mattina alle otto”.
“Bene, mi sembra un ottimo orario” fu tutto quello che riuscì a dire.

Venerdì, sabato e domenica sotto il sole di Capri. Ma sì aveva tutto il tempo per scrivere, giovedì non era ancora a metà e poi c’era sempre lunedì mattina.
Trascorse il resto della giornata ciondolando da un bar ad un altro in cerca dell’ispirazione. Ma come gli era venuto in mente di scrivere di una bambina capricciosa che non voleva più suonare il piano per diventare una cantante. Che seguito poteva mai dare a questa storia? Una cantante in una colonia italiana? Ma cosa aveva bevuto quella sera?
Andò a dormire senza aver concluso nulla e quella notte sognò una Maurizia Rugeri diciottenne che si esibiva mezza nuda in un locale equivoco di Las Vegas.

L’indomani partì alla volta di Capri con l’intenzione di non pensare alla sceneggiatura, fiducioso che tre giorni di puro relax gli avrebbero liberato la mente per facilitargli la concentrazione il lunedì successivo.
Il tempo trascorreva veloce tra bagni al mare, bagni di sole e balli nei locali dell’isola. Michele ebbe modo di sciorinare tutto il suo repertorio con la parte femminile degli invitati e riscosse come al solito un notevole successo. Naturalmente sapeva anche ballare molto bene e non si lasciò sfuggire l’occasione per esibirsi nei balli più alla moda del momento, anche se il boogie-woogie restava comunque il suo cavallo di battaglia. Il sabato sera li raggiunse Maria, una ragazza avvenente e molto simpatica che attrasse immediatamente la sua attenzione e che si esibì con lui in balli scatenati. Ma quello che più lo sorprese fu quando Maria si diresse verso il pianoforte del locale in cui era confluita l’allegra comitiva e, dopo essersi accordata col pianista, cominciò a cantare.
Elettra lesse sul suo sguardo uno stupore che, senza che lui avesse aperto bocca, la portò a dire: “Ma come, non lo sapevi? Non l’hai riconosciuta? E’ Maria Valli, la più grande cantante del momento!”.
Michele ancora stordito le rispose cortesemente: “Sì, sì, la conosco, è che non avevo realizzato che fosse lei”.
“Pensa che i suoi volevano che suonasse il piano quando era bambina. Si narra di un episodio in cui la fecero esibire presso un club, e alla fine dell’esibizione lei, che all’epoca aveva solo dieci anni, annunciò che non avrebbe più suonato ma che sarebbe diventata una cantante!”, aggiunse Elettra.
Questo era veramente troppo, eppure non aveva bevuto molto quella sera! Tutto ciò stava accadendo davvero o solo nella sua testa?

“Non credevo che ce l’avresti fatta! E mi è pure piaciuto!”, Alberto lo guardò con uno sguardo di intesa: “Dì la verità, l’avevi già scritto e mi hai voluto fare uno scherzo?”.
“Vorrei poterti dire che è così, ma in realtà l’ho scritto solo ieri. Sai come vanno queste cose, quando l’ispirazione arriva va assecondata e il bello è che non puoi prevedere quando e dove ti sorprenderà”.
Michele uscì da quella stessa porta da dove qualche giorno prima era stato quasi buttato fuori a calci, con in tasca un assegno fresco di inchiostro.
Si diresse verso il bar di Mario, quale posto migliore per spendere un po’ di soldi!

Cristiana Belcari
Input: Testo della Allende su Maurizia Rugeri

Vent’anni

“Ferrari”
“Eccomi”
L’infermiera le fece strada verso il piccolo ambulatorio. Il lettino era sistemato dietro un paravento e accanto, già accesa, c’era quell’apparecchiatura che Carla conosceva bene.
“Bene. Si Spogli e si metta su un fianco” le disse dolcemente Cristiana. E poi aggiunse sorridendo: “Non credo di doverle spiegare niente, la procedura la conosce”.
“Eh già, credo proprio di sì.”
“Vuole che le somministriamo un leggero anestetico?”
“Sì, grazie, le ultime volte ho sentito un po’ male…e se si può evitare…”
“Certo, perché soffrire quando si può evitare. L‘ha accompagnata qualcuno, vero? L’effetto durerà per qualche ora e non potrà guidare”.
“Sì, non si preoccupi”.
Marco era nella sala d’attesa che leggeva il giornale, “Perché sei così preoccupata? Sarà la decima volta che fai quest’esame!”, le aveva detto mentre aspettavano che la chiamassero.
E’ vero, ogni tre anni si sottoponeva a questo esame, ma questa volta, come del resto anche la volta prima, non aveva più l’incoscienza degli anni precedenti, l’età avanzava e le probabilità che le scoprissero qualcosa aumentavano.
La sua era una paura inconscia, non c’era niente che le facesse sospettare che qualcosa non andava, era come un brutto presentimento, un pensiero che non le aveva permesso di dormire la notte per una settimana prima dell’esame. Eppure fisicamente non si era mai sentita meglio come in quest’ultimo periodo…
“E’ pronta?”
“Sì, dottore”
“Allora procediamo”

Il calore della mano di Marco, che le stava accarezzando dolcemente il viso, le fece aprire gli occhi. Si ricordava vagamente che qualcuno l’aveva aiutata a rivestirsi, ricordava di aver ripetuto quei gesti così familiari in maniera meccanica, poi il buio.
Chissà come ci era arrivata su quella poltrona. Ce l’avevano portata o aveva camminato da sola?
“Come ti senti?”
“Un po’ stordita. Come è andata?”
“Stavamo aspettando che ti svegliassi per andare dal dottore. Ci chiameranno tra poco”
Carla si voltò verso la finestra, la testa era pesante e ricadde leggermente su un lato. Cercò di guardare fuori ma il biancore di quel cielo invernale la fece desistere, non riusciva a tenere gli occhi aperti. Passò un po’ di tempo, non avrebbe potuto dire quanto, ma il tempo in cui riusciva a tenere gli occhi aperti aumentava sempre di più. Aveva fame, tanta fame, da più di ventiquattro ore il suo stomaco non aveva accolto che liquidi. Aveva voglia di un bel piatto di pasta al pomodoro, con tanto formaggio.
“Prego, signora. Il dottore è pronto”
Marco l’aiutò ad alzarsi e, presala sottobraccio, si diressero verso lo studio del dottore.
“Buongiorno signora Ferrari, ci rivediamo” esordì il dottore sfoderando il suo sorriso migliore.
“Buongiorno dottore” si limitò a dire Carla.
“Allora signora, niente di preoccupante, però abbiamo riscontrato la presenza di un polipo che deve essere tolto abbastanza velocemente per fare una biopsia”
Lo sapeva, lo aveva sentito che c’era qualcosa. Vide Marco cambiare faccia, ma a lei la notizia non fece quell’effetto che si aspettava, forse perché era ancora sotto l’effetto dell’anestetico o forse perché prima o poi sapeva che sarebbe successo.
La sua mente tornò indietro nel tempo: ospedali, operazioni, esami su esami, viaggi della speranza e alla fine il verdetto, impietoso, irreversibile: un anno, un anno e mezzo al massimo.
Il dottore capì a cosa stava pensando, c’era anche lui all’epoca.
“Carla, sono passati vent’anni e la medicina ha fatto passi da gigante. Lo abbiamo individuato in tempo questa volta, le do la mia parola che lo sconfiggeremo, si rende conto di quanto è stata importante la prevenzione. Sono anni che la teniamo sotto controllo, non ci sarebbe potuto sfuggire”
Carla sorrise.
“Lo so” si limitò a dire.
Marco prese gli accordi sul da farsi con il dottore, lei non era in grado di farlo in quel momento. Si limitò a guardarli mentre parlavano di lei, mentre una grossa lacrima, incontrollata, le rigava la guancia destra.

Si avviarono verso l’uscita, “Aspettami qui, vado a prendere la macchina”.
Faceva freddo ma aveva bisogno di aria, si avvicinò alla porta che si aprì di scatto permettendole di uscire. Fece qualche passo e si appoggiò al muro, lo sguardo rivolto verso quel cielo bianco, come a cercare qualcosa, come a cercare qualcuno. C’era qualcuno lassù che poteva capire quello che stava provando in quel momento. Ne era certa.
Arrivarono sotto casa.
“Vado in farmacia a comprare le medicine che ti ha segnato il dottore. Ce la fai a salire da sola?”
“Sì, ce la faccio”.
Scese dall’auto e si diresse verso il portone, ma una volta entrata sentì il bisogno di uscire di nuovo.
Chiuse la porta. Uno scatto solo, secco.
Alzo' lo sguardo verso quel cielo plumbeo, lacrimante neve. Fiocchi gelidi si sciolsero sugli occhi.
Non piu' lacrime pensò, correndo incontro al suo domani.

Cristiana Belcari
Input: Finale (Roberta)

Prigione di vento

Goccia per goccia si scava la roccia
costruisce
pareti
ogni singola goccia

Cos’è rimasto dei germogli a scandire primavere,
del sole rosso, al tramonto, che annunciava dolci sere,
delle verdi colline, dei miei occhi di bambino?
Un rosario di ricordi tra le nebbie del mattino

Goccia per goccia, un muro trasparente
si alza
si chiude
prigione di niente

Ho smarrito il sorriso in qualche piega della vita
Ho smarrito la rotta come un vascello senza guida
ho perso i sogni senza sonno e sogno un sonno senza fine
e sprofondo nel mio spazio senza centro né confine

Immensa distesa di aria e deserto
di sabbia
di niente
prigione di vento

Giorni grigi che annunciano la notte tetra
sono gocce leggere che scavano pietra
stalattiti grondanti di malinconia
le invisibili sbarre della mia prigionia

Il buio solitario è la mia sola compagnia
la difesa
l’illusione
aceto e malvasìa

Ogni tanto mi alzo in piedi e guardo oltre le ferite
illudendo gli occhi stanchi di trovar siepi fiorite
sotto un cielo del colore delle reti di confine
solo rami spogli e secchi di viali senza fine

Mentre il tempo, scandito dal battito della goccia,
impassibile
continua
a corrodere la roccia.

Pierluigi Rossi
Input: musica

Non lasciatemi indietro

“Perché hai un libro di ricette da fare con la pentola a pressione se non ne possiedi una?” .
Alla domanda di sua figlia, Clara si girò guardandola con espressione sorpresa.
“Che cosa stai dicendo? Non ti sei ancora svegliata del tutto?”.
Anna si sedette su uno sgabello di fronte al bancone sul quale sua madre stava sminuzzando le cipolle. Come ogni domenica mattina in casa Franchi si cucinava il ragù.
Il disgusto che le si dipinse in volto era quello di ogni domenica mattina.
–Possibile che tutte le volte sia questa storia. Uno si alza con la voglia del caffellatte e si ritrova sotto il naso un disgustoso odore di soffritto-.
“Perché continui a guardarmi con quell’aria sbigottita?”
“No, niente… E’ rimasto un po’ di caffè lì sul fornello, ti dovrebbe bastare” le disse sua madre mentre sceglieva ad una ad una le foglie di prezzemolo.
Anna si alzò svogliatamente, aprì il frigo, prese il latte e, dopo averlo versato nel bollitore, accese il gas.
Clara sapeva che prima che avesse fatto colazione non era il caso di parlare con sua figlia. Si limitò ad osservarla, c’era qualcosa che non le quadrava ma non avrebbe saputo dire che cosa.

“Che buon profumino? Buongiorno alle donne della mia vita!”
“Ciao papà” disse Anna porgendo la guancia a suo padre di rientro dalla passeggiata mattutina col cane.
“Allora? Come è andata la tanto temuta cena dai suoceri?”.
“Che cena? Di cosa stai parlando papà! Si vede che stai invecchiando eh! La cena è per stasera!” affermò sorridendo Anna che, volgendosi verso la madre aggiunse: “A proposito mamma, secondo te che cosa devo portare alla mia futura suocera? Che ne dici di una pianta?”.
“Anna, ti senti bene? Hai mica bevuto o fumato qualcosa di strano ieri sera?”.
“Ma cosa dici, mamma? E perché mi guardate come se fossi un marziano?”
“Tesoro, oggi è domenica. Sei andata alla cena con Guido ieri sera. Non ti ricordi quando ti è venuto a prendere?”.
Anna guardò suo padre come se il marziano fosse lui e stava per rispondergli quando sentì sua madre dire: “E non ti ricordi che ieri pomeriggio siamo andate alla serra a comprare una begonia, dopo essere state in centro a comprare la pentola a pressione?”.
“Ma di che cosa state parlando? Oggi è sabato e ieri, dopo il lavoro ho preso un aperitivo con Chiara e poi siamo andate al cinema!”.
Lo squillo del telefono interruppe lo sbigottimento generale che quell’assurda conversazione aveva provocato.
Giorgio, si avviò verso il telefono non prima di aver lanciato uno sguardo interrogativo in direzione della moglie che, per la prima volta in trent’anni di matrimonio, aveva permesso che un evento esterno interrompesse il rito della preparazione domenicale del ragù.
“Pronto”.

“Buongiorno a te, Guido”.

“Sì, sta facendo colazione.”

“Ma certo, non potevi avere idea migliore. Ti aspettiamo”.
Giorgio ebbe appena il tempo di abbassare la cornetta che Anna lo assalì: “Che cosa voleva? Perché non me lo hai passato? Che cosa vuol dire –ti aspettiamo-?”.
Clara, che nel frattempo si era seduta interrompendo definitivamente il suo lavoro, osservava il marito con un’espressione indefinibile, non sapendo più che cosa pensare.
“Il tuo futuro sposo sta venendo qui per farci vedere le foto della meravigliosa serata che avete trascorso ieri sera a casa dei tuoi futuri suoceri!”, disse Giorgio lasciandosi cadere di peso nella poltrona rossa a fiori gialli che sua moglie aveva voluto comprare, a forza, ad una fiera dell’artigianato russo, una ventina di anni prima.
“Oh Signore!” esclamò Clara, “ma che cosa sta succedendo?”.
Anna, che continuava a capirne meno degli altri, si alzò e sconsolata si diresse verso il bagno.
“Ma che cos’ha?”, chiese Clara al marito. “E’ da quando si è alzata che è strana. Possibile che non ricordi nulla di quello che ha fatto ieri?”.
“Clara, non ci capisco nulla, sembrerebbe una forma di amnesia. Speriamo che Guido arrivi in fretta e ci racconti se è successo qualcosa di strano ieri sera”.

Al suono del campanello Giorgio si precipitò ad aprire per poter parlare con Guido prima che sua figlia rientrasse in soggiorno.
Il giovane sembrava non credere a quello che gli dicevano i genitori di Anna. Non poteva non ricordarsi della serata appena trascorsa. Si erano divertiti molto, anche perché non si era trattato di una vera e propria cena, ma di una festa per il trentacinquesimo anniversario dei suoi genitori, per cui la casa brulicava di amici e parenti. E Anna, glielo poteva assicurare, si era divertita tantissimo.
“Come è possibile allora che non si ricordi nulla? E non solo della festa, ma di tutta la giornata di ieri! E’ come se si fosse fermata a venerdì”, esclamò Clara.
“Che cosa state confabulando voi tre? Sembrate gli affiliati di una setta carbonara che stanno meditando un complotto anti austriaco!”, disse ridendo Anna entrando in soggiorno.
In effetti Guido ed i suoi genitori erano rimasti, senza nemmeno rendersene conto, in piedi vicino alla porta d’ingresso a parlare sottovoce tanto erano presi dalla formulazione di varie ipotesi che potessero spiegare la situazione che si era venuta a creare.
“Buongiorno amore. Come stai? Hai dormito bene? Abbiamo fatto tardi ieri sera!”, le disse Guido andandole incontro per salutarla con un bacio.
“Anche te con questa storia! Ma insomma, che cosa sta succedendo? Ieri sera ero con Chiara al cinema, oggi è sabato e stasera andremo alla festa di anniversario dei tuoi”, sbottò stizzita Anna riassumendo quello che aveva fatto la sera prima quasi a voler convincere più se stessa che gli altri.
Guido si voltò verso i suoceri con l’aria di chi non ha ancora perso tutte le speranze e tirò fuori dalla tasca della giacca una macchina fotografica digitale. “Ok, allora queste come le spieghi?”, le rispose porgendole l’apparecchio che l’aveva immortalata la sera prima felice e sorridente in mezzo agli ospiti della festa.
“Non ci posso credere! Ma questa sono io? E questo vestito di chi è? Non me lo ricordo”, esclamò esterrefatta Anna alla vista di quelle foto.
“Siamo uscite appositamente per comprare un vestito nuovo per la cena, ieri, tesoro. Naturalmente dopo aver comprato la pentola a pressione!” intervenne sua madre.
“Ti ricordi di avere avuto mal di testa ieri sera, Anna?”, le domandò suo padre.
“Ma papà, se non mi ricordo nemmeno di averla vissuta la giornata di ieri, figurati come mi posso ricordare di aver avuto mal di testa”, si spazientì Anna.
“Già, hai ragione…”.
“Va bene, va bene, cerchiamo di non farci prendere dal panico. Proporrei di aspettare domani e di vedere come va. Se la situazione rimane la stessa porteremo Anna da uno specialista. Mio padre saprà sicuramente consigliarmene uno”, affermò Guido.

Il giorno dopo la situazione, non solo non era migliorata, ma anzi era peggiorata. Mentre per tutti si trattava di un lunedì, per Anna quello era un venerdì, perché i suoi ricordi si fermavano al giovedì precedente. E così i giorni successivi. Mentre gli altri andavano avanti di un giorno, lei, non solo si era fermata a venerdì ma andava indietro progressivamente di un giorno.
Fu visitata dai più famosi specialisti e sottoposta ad ogni genere di esame, ma nessuno riusciva a spiegare l’origine e tantomeno il decorso di questo strano morbo che la portava a dimenticare ogni giorno un pezzetto della sua vita.
Anna sembrava non rendersi conto granché di quello che le stava succedendo anche perché i suoi ricordi andavano a ritroso per cui nel suo cervello non c’era alcuna traccia di questa malattia. I suoi genitori e Guido, invece, erano ogni giorno più sgomenti per l’impossibilità di aiutarla, nonostante tutti gli sforzi.
Cominciarono addirittura a pensare di portarla da qualche guaritore per non lasciare nulla di intentato. La medicina tradizionale non aveva portato ad alcuna soluzione, per cui non restava che affidarsi a qualche santone.

“Non mi sembra una buona idea. L’idea che a mia figlia venga fatta ingerire qualche strana pozione non mi entusiasma proprio!”.
“Che cosa abbiamo da perdere, Clara? Ormai le abbiamo provate tutte e non siamo arrivati a nessuna conclusione”.
“Lo so, ma non mi fido di questi personaggi, sono convinta che siano tutti degli impostori”.
“E tu Guido, che cosa ne pensi?”
“Non lo so, è che secondo me la soluzione di tutto sta nella sera della festa. Se ci pensiamo bene è quella la chiave di volta di tutta questa storia. E’ da quella sera che Anna ha cominciato ad avere questa sorta di amnesia retroattiva progressiva”, disse Guido pensando a voce alta. Era già un po’ di tempo che quest’idea gli frullava per la testa ma non sapeva come portare avanti questa teoria.
“Parlate di me come se io non esistessi. Il fatto che non mi ricordi che cosa ho fatto ieri non vuol dire che siete autorizzati a prendere delle decisioni riguardanti la mia vita al posto mio!”.
Anna si era stancata di sentir parlare di lei, della sua malattia, di possibili cure e rimedi, senza essere interpellata. Ogni mattina appena sveglia, sua madre le raccontava che cosa le era successo e per aiutarla a comprendere le faceva ascoltare delle registrazioni di conversazioni avvenute nei giorni precedenti. Non faceva in tempo a realizzare la sua situazione che arrivava la sera e non appena si fosse addormentata avrebbe dimenticato tutto di nuovo.
“Non voglio andare da un santone, non voglio diventare un fenomeno da baraccone!”.
“Hai ragione Anna”, disse sua madre, “ci dispiace se ti abbiamo dato la sensazione che volessimo prendere delle decisioni al tuo posto. Il problema è che vorremmo tanto aiutarti ma non sappiamo come”.
“Eppure io sono convinto che la soluzione sia nella sera della festa. Noi non siamo stati insieme tutta la sera, mi ricordo che ad un certo punto ti ho persa di vista per un po’, ma non so dove sei andata e con chi ti sei intrattenuta. E visto che tu non mi puoi essere d’aiuto farò una ricerca in questo senso. Mi farò dare la lista degli invitati dai miei genitori, li contatterò uno ad uno e mi farò dire se qualcuno si ricorda qualcosa che ci possa aiutare”.

Nei giorni successivi Guido si procurò la lista degli invitati e passò giornate intere a contattarli e a farsi raccontare come avevano trascorso la serata, se avevano visto o parlato con Anna, se avevano notato qualcosa di strano.
Una signora di mezza età, amica di sua madre, gli riferì di aver incontrato Anna in bagno e che parlando era venuto fuori che alla ragazza era venuto un forte mal di testa. Poiché la signora soffriva abitualmente di mal di testa, le offrì un cachet che Anna accettò di buon grado nella speranza che il dolore le passasse in fretta in modo da potersi godere il resto della serata.
Guido si fece dare una confezione del farmaco che veniva preparato appositamente per la signora e lo portò ad analizzare come suggerito dallo specialista che per primo aveva visitato Anna.
Dalle analisi emerse che Anna era allergica ad una specifica sostanza contenuta in quel farmaco. Tra gli effetti collaterali c’era la progressiva perdita di memoria, ma quello che nessuno si riusciva a spiegare era perché tale effetto durasse così a lungo.

“L’importante è che siamo riusciti a capire l’origine di questa amnesia”, esclamò tutto eccitato Guido quando ebbe finito di raccontare a fidanzata e suoceri quello che gli aveva riferito il dottore.
“Ma esiste una cura?”, domandò Anna.
“Per ora no, però ci stanno lavorando e il dottore è molto ottimista. Dice che nel giro di un mese sarà pronta una terapia sperimentale”.
Era già passato un mese dalla fatidica sera della festa e un mese doveva ancora passare prima che si potesse tentare una cura per Anna.
Giorgio e Clara, seduti l’uno accanto all’altro sul divano, apparivano provati da questa situazione ma cercavano di farsi forza soprattutto per il bene della figlia e di Guido che non si era mai arreso.
Anna fissava il pavimento con uno sguardo assente e sconsolato, ancora un mese a passare le giornate a scoprire quello che le era successo per poi averlo già dimenticato la mattina successiva.
Erano le dieci di sera, Anna si alzò, guardò i suoi genitori e poi Guido: “Sono stanca, vado a dormire. Vi prego non mi dite nulla domani, fate come se niente fosse, assecondatemi fino a quando non sarà pronta la cura da sperimentare. Ho voglia di vivere una giornata normale fatta di realtà e non di ricordi raccontati da altri”.

Cristiana Belcari
Input: Il morbo di Merlino

lunedì 4 giugno 2007

Mi piaci quando taci

“Le parole sono perle
custodite dagli abissi marini,
e aspettano qualcuno,
disposto ad immergersi fino in fondo
per poterle ascoltare.”

Con la testa appoggiata al finestrino vedo scorrere davanti ai miei occhi piccole case dai tetti appuntiti in ardesia, con finestre guarnite da vasi ricolmi di geranei rossi e rosa, dietro alle tendine bianche ricamate, immagino bambini dai capelli biondi e la pelle di porcellana seduti al tavolo davanti ad una ciotola di latte e cereali. Stiamo attraversando l'Austria. E' tutto così pulito, perfetto, ordinato. Vorrei che anche dentro di me fosse così.
Poi una voce mi distoglie da quei pensieri.
– Mamma, mi passi per favore l'mp3, è nella tasca anteriore dello zaino. Grazie.
Alberto ha modi gentili, a volte femminili, è sempre stato un bambino tranquillo e anche nei viaggi lunghi non si spazienta, trova il modo di trascorrere il tempo.
– Ecco qui, Alberto, ma non tenere troppo alto il volume sai che puo' danneggiarti l'udito.
Mentre glielo passo, dietro la sua testa intravedo Francesco con il capo reclinato all'indietro appoggiato allo schienale, gli occhi chiusi, serrati, saranno tre ore che dorme ininterrottamente; non l'ha svegliato neanche il controllore quando nell'aprire la porta dello scompartimento, ha urtato contro il suo ginocchio destro.
Il nostro viaggio è iniziato diverse ore fa, domani arriveremo a Praga, la meta delle vacanze estive di quest'anno.
Ho ancora aperta sulle gambe la guida turistica; riprendo a leggerla, ma si, basta con le elucubrazioni!! Voglio godermi questi giorni, assaporare l'aria di questa città magica, godere della musica che risuona in ogni angolo della strada. Lo desidero da tanto.
– Anche voi a Praga?
– Si.
– Mi presento. Sono Mauro.
– Piacere Lara.
Che sciocca, sto arrossendo, per togliermi dall'imbarazzo dico la prima cosa che mi viene a mente.
– Speriamo che il tempo sia buono.
– Già.
E' seduto davanti a me, ora sorride e porta il suo sguardo fuori, è solo. E' salito alla stazione di Bologna, prima ha letto La Repubblica, poi un libro che non sono riuscita a riconoscere, ora ha in mano un libro di poesie di Pablo Neruda, ne legge alcuni versi, sospira. Mi rendo conto che non posso fare a meno di guardarlo, ha tratti scuri, occhi profondi e neri e delle bellissime mani. Sono un estimatrice delle mani, mi piacciono quelle affusolate e magre, mi trovo a pensare alle sue mani che carezzano la mia pelle e me ne vergogno un po'; perchè sono qui seduta insieme a mio figlio e mio marito, dovrei pensare a loro, guardare loro, una buona madre e moglie fa così; invece mi perdo sempre di piu' nelle mie fantasie, continuo a sognare come un ragazzina. Non so niente di lui e proprio questo mi affascina. Posso investirlo di tutto cio' che vorrei e che non ho il coraggio di cercare e di vivere.
Tengo sotto controllo la situazione; non appena china la testa per la lettura o volge lo sguardo, lo osservo attentamente, alla ricerca di quelle movenze che disegnano il carattere, definiscono la persona.
– Passami l'acqua.
Francesco si è svegliato. Prende frettolosamente la bottiglia dell'acqua guardandomi severamente. E' incazzato, è così evidente, lo riscontro dall'espressione di Mauro: un misto di incredulità e sorpresa.
– Non sono molto comodi per dormire questi treni, finisce che ci risvegliamo piu' stanchi di prima, vero?
– No, assolutamente, ho dormito benissimo.
– Mi presento. Sono Mauro. Quindi anche voi a Praga.
– Andiamo a Praga. Si.
– Tu sei....
– Francesco, mi chiamo Francesco.
Sorrido imbarazzata, le risposte secche di Francesco hanno calato un velo di freddezza incomprensibile. Mauro si alza ed esce, vorrà fare due passi nel corridoio, oppure togliersi da una situazione di disagio.
– Che c'è Francesco? Perchè sei arrabbiato?
– Niente. Perchè, ti sembro arrabbiato?
– Si, e non capisco.
– Lo sai bene, non fare la santarellina. Non sono uno stupido, io. Me, non mi prendi per il culo, hai capito?
– Finiscila, ti prego. Non è il caso.
– Sei sempre la stessa.
Alberto continua ad ascoltare la musica, almeno questa volta è stato risparmiato, o forse ha capito e per questo tiene alto il volume.
Sale dentro me prepotente la rabbia, che insieme alla sconforto, indebolisce l'istinto fino a confinarlo nel mio abisso.
Quando Mauro ritorna, io dormo, anzi faccio finta di dormire. Mi sono presa una vile e breve fuga, dai problemi, dalla vita.
Il viaggio continua, intervallato da brevi frasi di circostanza. Mauro si rivolge sempre a Francesco, pare abbia capito. Scopro dai suoi discorsi la passione per l'arte, la musica, la scrittura. Anche lui è stato a Parigi. Anche lui ne ha subito il fascino. Parla un italiano corretto senza inflessioni dialettali, si muove con delicatezza e garbo. Intervengo solo per rispondere alle domande di Mauro, mi pare di notare una certo compiacimento da parte sua, quando parlo dei luoghi che vorrei visitare a Praga, dell'atmosfera che spero di trovare. La tensione iniziale non si è ancora sciolta e mi scopro piu' silenziosa del solito. Eppure avrei tante cose da dire; da dirgli.
Arrivati a Praga, ci salutiamo augurandoci una buona visita della città.


La prima tappa del nostro viaggio è il quartiere ebraico e le sue sinagoge, considerato che domani è sabato e saranno chiuse.
Josefov è il nome del quartiere ebraico, in onore di Giuseppe II che ebbe il pregio di abolire – almeno parzialmente – le leggi discriminatorie emanate nei confronti degli ebrei. Alla sinagoga Pinkas c'è una discreta fila di visitatori, dopo una ventina di minuti riusciamo ad entrare. Sulle sue pareti sono scritti i nomi degli oltre 77.000 ebrei cecoslovacchi che non fecero ritorno dal campo di concentramento di Terezìn. Conoscevo questo particolare e ora che sono qui immersa nel silenzio rispettoso che si stende nell'aria, ogni nome, ogni lettera impressa sui muri pare urli tutta la bestialità e l'immane tragedia subita. Stento a muovermi, una forza estranea e inaudita mi tiene incollata al pavimento, attonita, impietrita. Quando faccio per voltarmi e cercare Francesco ed Alberto, invece vedo Mauro. Anche lui mi vede, sorride appena e viene verso di me, si avvicina.
– Impressionante.- mi sussurra.
Sto per rispondergli, quando una voce sostenuta, dietro me
– Andiamo dai, ci sono ancora tante cose da vedere.
Francesco è sbucato dal nulla e come una meteora e' piombato su di noi, cristallizzando il tempo.
– Scusaci, dobbiamo andare.
Dopo il vecchio cimitero ebraico, dove le tombe sono sovrapposte le une sulle altre, visitiamo la sinagoga Klausen. Francesco e Alberto sono piu' veloci di me e decidono di aspettarmi fuori.
– Noi usciamo. Ti aspettiamo ad un bar qua fuori. Dacci un taglio, non è che puoi vedere tutto!

– Conosci la leggenda del golem?
Di nuovo lui, con il suo fare discreto, neanche avesse immaginato cosa mi stava passando per la testa.
– Si, pare si trovasse nella soffitta della sinagoga vecchia-nuova, che fosse stato creato dall'argilla e che il Rabbi Low, con i suoi poteri, gli avesse dato vita. Si narra che quando il golem, da servitore fedele, si ribellò al suo padrone, Low dovette distruggerlo.
– Proprio così. Sai, faccio parte di un gruppo teatrale e quest'inverno abbiamo messo in scena questa leggenda.
– Interessante, l'avrei vista volentieri.
– Avrebbe fatto piacere anche a me. Anche se abbiamo parlato poco, mi sembra di conoscere le tue inclinazioni, i tuoi interessi, probabilmente perchè sono anche i miei.
Continuiamo insieme la visita della sinagoga e quando gli dico che dopo andremo sul Ponte Carlo, passando per la piazza di Staré Mesto e la Karlova, si entusiasma e decide di venire con noi.
Dentro la mia testa un groviglio di pensieri, come reagirà Francesco? Lo conosco bene, è convinto che Mauro sia interessato a me, e che io stia facendo la stupida, che gli dia corda. Niente e nessuno, in questi casi, riesce a farlo ragionare. Lui ha già definito la questione, individuato i colpevoli, sputato la sentenza.
Giunti nella piazza della città vecchia, restiamo tutti affascinati dalle guglie delle torri della Chiesa di S. Maria di Tyn che si stagliano nel cielo come punte affusolate di spade, ai vari angoli della piazza musicisti improvvisano melodie con violini, contrabbassi, sax, clarinetti. La luce del tramonto illumina i palazzi intorno alla piazza di tonalità rosse e arancio, aggiungendo calore, ad una città già di per sé intima e suggestiva. Mi piace Praga, sono contenta di essere qui, ora; vorrei che il tempo si fermasse, almeno per un po'. Francesco e Alberto, si incamminano con una certa impazienza. Da quando sono uscita dalla sinagoga con Mauro, Francesco non ha proferito parola, si è chiuso in un silenzio assordante, pesante come un macigno, tiene Alberto per mano, non lo lascia mai; forse per lui adesso è il suo unico appiglio, oppure mi vuole isolare, punire.
Attraversiamo la Karlova, con passo veloce, e giungiamo in prossimità del Ponte Carlo, la zona piu' affollata di Praga. Ai lati del ponte, artisti di strada: chi fa ritratti, chi dipinge, chi suona, insieme a bancarelle improvvisate di souvenir per i turisti. Nonostante il caos, l'atmosfera rimane magica, sarà per la Vltava che scorre sinuosa e docile, con i suoi riflessi ambrati.
Respiro quell'aria e mi entusiasmo per ogni cosa che vedo, come un bambino alle sue prime scoperte; parlo a Francesco indicandogli di volta in volta quello che attira la mia attenzione, lui non risponde, rimane cupo, ombroso; ha lo sguardo di un uomo che ha appena compiuto un delitto, gli occhi rossi, lucidi, sgranati. Mauro scambia con me sguardi che sanno di comprensione. Siamo ormai giunti dall'altra parte del ponte, nella zona di Mala Strana ed è arrivato il momento di salutarci con Mauro, che domani partirà per Berlino. I saluti sono freddi e asciutti, nonostante Mauro si prodighi a smorzare l'atteggiamento indisponente di Francesco. Gli dico che è stato un piacere, gli auguro buon viaggio; in realtà vorrei dirgli molto di piu'. Vorrei dirgli che ho apprezzato la sua discrezione, che mi dispiace non aver potuto condividere serenamente gli interessi che abbiamo in comune, che se ce ne fosse stato il modo e il tempo avrei potuto fargli capire, farmi capire; che è una buona persona e che gli auguro ogni bene. Rimane un ultimo sguardo e proprio quando sto per voltarmi, mi prende la mano dicendomi sottovoce:
– è per te.
E' un foglio ripiegato, che furtivamente infilo nella tasca della giacca, con il timore di essere vista da Francesco. Sono impaziente di vedere che cos'è, ma dovro' aspettare il momento opportuno, che con un clima del genere non si verificherà tanto facilmente. La serata prosegue lentamente, conto di guardare il foglietto stanotte. Aspetterò che tutti dormino e poi mi chiuderò in bagno. Si farò cosi'.
Osservo il soffitto di questa camera d'albergo, sdraiata su un letto che pare avere chiodi al posto dei lenzuoli, tendo l'ascolto per distinguere il respiro di Francesco quando si fa piu' pesante, quando posso sentirmi al sicuro.
Ci siamo. Ho nascosto il foglio tra l'ovatta che uso per struccarmi. Lo apro. E' la pagina strappata di un libro, di poesie:
Mi piaci quando taci
mi piaci quando taci perchè sei come assente,
e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca.
Sembra che gli occhi ti sian volati via
e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.

Poiche' tutte le cose son piene della mia anima
emergi dalle cose, piena dell'anima mia.
Farfalla di sogno, rassomigli alla mia anima,
e rassomigli alla parola malinconia.

Mi piaci quando taci e sei come distante.
E stai come lamentandoti, farfalla tubante.
E mi ascolti da lungi, e la mia voce non ti raggiunge:
lascia che io taccia col tuo silenzio.

Lascia che ti parli pure con il tuo silenzio
chiaro come una lampada, semplice come un anello.
Sei come la notte, silenziosa e costellata.
Il tuo silenzio è di stella, cosi' lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perchè sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Allora una parola, un sorriso bastano.
E son felice, felice che non sia così.
(P. Neruda)

Roberta Colombini
(ispirazione: versi di poesia.)

Emma

“Ma dove siaaaamooo??” disse sguaiatamente, nel mezzo di uno sbadiglio, la grassa signora accanto al finestrino.
“Siamo quasi arrivati” rispose a presa di giro una delle sconosciute sedute di fronte.
“Oddio, allora devo scendere!”
In un sisma di gocce di sudore e vestiti madidi la signora si alzò facendo leva con le braccia. Le caviglie strabordavano da un improbabile decolleté e, nonostante un pesante trucco ormai quasi sciolto, colante, era evidente il tentativo mal riuscito di nascondere la sua vera età.
I capelli, tinti di fresco, si abbracciavano a ciocche per l’umidità.
Anche i fiorellini del vestito parevano appassire.
Urtando ginocchia, teste e qualsiasi altra cosa ad altezza natica la signora guadagnò il corridoio, proprio mentre il treno stava frenando. L’inerzia della frenata la spinse di qualche metro, mentre una scia di sudore rimaneva impressa sul finestrino.
Finita l’inerzia l’impresa fu ardua. Furono d’impaccio anche una valigia lasciata inopinatamente nel mezzo e il suo padrone, momentaneamente chiuso in bagno.
Purtroppo per il proprietario la valigia non era rigida, e la signora si domandò cosa potesse essere quell’oggetto che stava scricchiolando sotto i suoi piedi.
Finalmente l’uscita!
Il treno era fermo e improvvisamente si rese conto.....
Aprì la porta, affacciandosi, e per fortuna la stazione era quella giusta. Orario perfetto.
Cercò decisamente qualcuno che parve riconoscere in un giovanotto sulla trentina; jeans e camicia bianca.
“Marco”, chiamò.
Il ragazzo si avvicinò ed aiutò quella colata di carne fradicia a scendere gli scalini.
“Tu sei Marco, vero? Io sono Emma”
“No signora, mi chiamo Stefano” e se ne andò.
Emma rimase seduta all’ombra della pensilina per molte ore, prima di prendere un altro treno per tornarsene a casa.
Marco, andandosene, pensò che non avrebbe mai più accettato appuntamenti con donne conosciute via internet e mai viste prima.

Pierluigi Rossi
Input: Signora grassa, treno, valigia......

Da qualche parte, viva

‹‹C’è stata una volta, quest’estate, in cui ho riso come un matto, ho riso da dovermi tenere lo stomaco, una di quelle volte che ti cadono le lacrime, che non sai come fare a smettere, che se ci ripensi ti viene ancora da ridere… ti ricordi?››
‹‹Mi sembra di sì… alla cena dal Testaccio, no? Abbiamo riso tanto…››
‹‹Quasi. E’ stato mentre ci stavamo andando, quando eravamo ancora in macchina››
‹‹Ah, già! Oddio, te lo ricordi ancora…››
‹‹E chi se lo dimentica? Credo di non aver mai riso tanto in vita mia››
‹‹Solo perché mi sono spaventata del fatto che c’era una vacca in mezzo alla strada e ho frenato all’ultimo minuto…››
‹‹Frenato? Hai dato di sterzo e per poco non ci siamo ribaltati. Hai gridato una raffica di Signori e Cieli che non finiva più. Quando finalmente la macchina si è fermata, mi hai guardato con la faccia di una che ha fatto un gargarismo con il mercurio. E la vacca non si è spostato di un centimetro››
‹‹Ecco un buon motivo per andare al mare, quest’anno››
‹‹Ma no. Basta che la prossima volta fai guidare me››
‹‹Amore, devo forse ripeterti quello che penso a proposito dei luoghi comuni sulle donne al volante?››
‹‹No, grazie, credo di saperne già abbastanza…››
‹‹Comunque dico sul serio. Stare qui mi ha fatto venire voglia di andare al mare. Che ne pensi?››
‹‹…››
‹‹Beh? Allora?››
‹‹Mi sembra una buona idea. Ma sì, quest’estate andremo al mare…››


‹‹Tua sorella è un disastro. Ha detto che arriverà dopodomani. Eppure le ho spiegato che…››
‹‹Mamma, santo cielo. Non c’era bisogno di metterle fretta››
‹‹No, va bene, mica le ho messo fretta, ma visto che…››
‹‹Già, non le avrai messo fretta a modo tuo, cioè profetizzando l’apocalisse se non sarà qui nel giro di qualche ora. Dille che non importa, può restare a Berlino, non serve che torni...››
‹‹Ma come non serve! Con te in queste condizioni…››
‹‹Ma quali condizioni? Sto benissimo! Non ti sei allarmata così nemmeno quando papà si è sentito male l’anno scorso...››
‹‹Che c’entra...››
‹‹Suvvia, mamma. Stai diventando vecchia. Richiama Cristiana e dille che non venga. Davvero. Farebbe il viaggio per niente, visto che al massimo dopodomani mi manderanno a casa››
‹‹…››
‹‹Va bene, ho capito, la chiamo io. Passami il telefono››
‹‹Santo cielo! D’accordo, le dico di non venire. Contenta?››
‹‹Brava. E poi non c’è davvero bisogno di preoccuparsi. Sto benissimo››


‹‹Sai papà, mamma sta invecchiando proprio male. Sono qui da due giorni, e quasi m’infila le immagini dei santi in tasca››
‹‹Non è la vecchiaia. E’ sempre stata così››
‹‹Sì, è vero. Mi ricordo di quando io e Cristiana eravamo piccole, e lei non voleva che la portassi in giro sul portapacchi della bicicletta…››
‹‹Io ho dovuto smettere di bere due caffé al giorno. Diceva che fanno venire la gastrite››
‹‹Beh, però bisogna ammettere che mi ha insegnato bene. Credo di aver imparato da lei tutto ciò che non si deve fare››
‹‹Sarai una moglie perfetta, dunque››
‹‹Uhm, ne dubito. A proposito, Rino quando viene? Quel disgraziato non si è ancora fatto vedere, da quando sono qua!››
‹‹Tesoro, è venuto l’altro ieri…››
‹‹Stai scherzando, papà? Saranno almeno tre giorni che non lo vedo. No, probabilmente di più. Non lo vedo da almeno una settimana. Dammi il telefono, che lo chiamo e gliene dico quattro››
‹‹Sofia, è venuto l’altro ieri, sul serio. Forse eri stanca e non te lo ricordi…››
‹‹Ma piantala un po’, papà! Secondo te mi dimentico di aver visto il mio ragazzo? Dai, passami il cellulare!››
‹‹…››
‹‹Beh?››
‹‹Va bene. Ma non essere troppo severa con lui››


‹‹Mi sento come…››
‹‹Sì? Hai bisogno di qualcosa…?››
‹‹No, grazie… mi sento come… come se… fossi pesante… come se il mio corpo all’improvviso fosse diventato di piombo… e con questo corpo io dovessi camminare su un filo di seta trasparente di cui non si vede la fine, senza perdere l’equilibrio… e sopra, sotto e intorno a me ci fosse solo cielo… e una brezza dura, come ferro… e rondini, rondini nere… che vanno verso l’alto…››
‹‹Riposati un po’, amore mio…››


‹‹Ah, finalmente ti fai vedere! Che madre snaturata, che ho. Sono qui da due giorni, e vieni solo oggi!››
‹‹Ma Sofi, ero qui ieri sera…››
‹‹Mi prendi in giro? Non eri ancora mai venuta. Cristiana quando arriva?››
‹‹Non viene. Hai voluto tu che restasse a Berlino…››
‹‹Ah, l’ho voluto io? Uhm, sì, probabile. Non vale la pena farla venire qua. Tanto, al massimo dopodomani mi manderanno a casa››
‹‹…››


‹‹Rino sei veramente uno sciagurato, sai…? Due giorni che sono qua e tu ti presenti con tutto questo ritardo…››
‹‹Ti ho portato un libro››
‹‹Uhm, non ti perdonerò così facilmente…››
‹‹E’ una raccolta di poesie di Rimbaud››
‹‹D’accordo. Perdonato››
‹‹Ne leggiamo qualcuna?››
‹‹Sì. Posso scegliere?››
‹‹Certo››
‹‹Direi questa. “L’alba”››
‹‹Ho abbracciato l’alba d’estate…››
‹‹Nulla si muoveva ancora sulla fronte dei palazzi. L’acqua era morta. I campi d’ombra non abbandonavano la strada del bosco. Ho camminato, ridestando gli aliti vivi e tiepidi, e le pietre preziose guardarono, e le ali si alzarono senza un fruscio…››


‹‹…Al risveglio era mezzogiorno››
‹‹Mi sembra di averla già sentita, questa poesia››
‹‹Forse l’avrai letta con Rino››
‹‹Ma figurati, papà. Quello scansafatiche non si fa vedere da almeno una settimana››


‹‹… Cristiana ha sempre fatto così, mamma. Anche quando eravamo bambine. Quando io ero malata, lei usciva a giocare e non si curava minimamente di me. Anzi, avevo l’impressione che fosse quasi piacevole, per lei, il fatto che io dal mio letto sentissi le sue grida allegre in giardino…››
‹‹Tua sorella è arrivata ieri, Sofi. E’ anche venuta qui a trovarti…››
‹‹…e tu sempre a difenderla, come al solito!››


‹‹Vede, infermiera, nella mia famiglia sono tutti dei gran menefreghisti. Il mio fidanzato, poi, è veramente un cafone. Sa che in due giorni… - caspita, sembrano di più - … insomma, sa che da quando sono qui, non è ancora venuto nessuno a trovarmi?››


‹‹Io non capisco. Cosa vi ho fatto…?››

‹‹Crediamo si tratti di encefalite letargica. Ogni tanto riprende conoscenza, le facoltà mentali sono intatte, ma non ricorda niente dei fatti accaduti di recente. Diciamo che, ogni volta che si addormenta, perde la memoria di quello che è accaduto il giorno prima››
‹‹Quindi la sua memoria si è fermata a tre settimane fa, quando le è preso il primo attacco…››
‹‹Continua a sostenere che è qua da due giorni, ma i suoi sensi sanno che è passato molto più tempo…››
‹‹Qual è la cosa peggiore che può capitarle, dottore?››
‹‹Beh… che si addormenti definitivamente, e rimanga in uno stato simile al coma…››
‹‹Ma una cura… una cura, esiste?››
‹‹La stiamo curando come meglio possiamo, signorina Cristiana. Stia tranquilla. Stia vicina a sua sorella più che può…››
‹‹Farò del mio meglio, anche se è difficile… sarà la millesima volta che le ripeto com’è andata a Berlino…››


‹‹…E’ buio. Come in un fondale marino…››
‹‹La persiana è aperta a metà. Vuoi che la tiri su completamente?››
‹‹Sì… o forse è meglio di no, forse darebbe fastidio agli altri… e poi… la luce comunque non basterebbe…››
‹‹Stai bene, amore?››
‹‹La luce… anche con cento finestre aperte, e cento lampadine, e cento candele... non basterebbe lo stesso… c’è pochissima luce… qui dentro…››
‹‹Sei solo un po’ stanca. Dovresti riposare››
‹‹Mi sembra di non aver fatto altro, negli ultimi tempi…››


‹‹Io davvero non capisco…››


‹‹Papà…?››
‹‹Oh… scusa, tesoro, mi ero addormentato››
‹‹No, scusami tu. E’ che ti stava scivolando il libro dalle ginocchia››
‹‹Grazie, cara››
‹‹Sai, non ho potuto fare a meno di notare…››
‹‹Che cosa?››
‹‹Niente, una sciocchezza. Stavo pensando che… che ti addormenti sempre nello stesso identico modo. Sempre…››
‹‹Davvero? E come?››
‹‹Te l’ho sempre visto fare, fin da quando ero bambina... anche allora, ti sedevi sulla poltrona, leggevi per un po’, poi la testa ti cominciava a ciondolare - a dire dei sì pesantissimi -, gli occhiali ti scendevano sulla punta del naso, il collo ti si ritraeva tra le spalle… mi facevi una tenerezza così grande, quasi dolorosa…››
‹‹Sofia…››
‹‹E desideravo… desideravo essere io quel sonno, volevo essere io, a farti scivolare in un tale stato di quiete… volevo essere il tuo ponte per quella dimensione di serenità ristorante, dove nessun dispiacere poteva toccarti…››
‹‹Ti si chiudono gli occhi, Sofia…dormi un poco…››
‹‹Ma è ancora giorno…››


‹‹Confonde il giorno con la notte, si addormenta mentre parla…››
‹‹E quando è sveglia ha sempre quell’aria trasognata…››
‹‹Non trova sia peggiorata, dottore?››
‹‹Stiamo facendo tutto il possibile››
‹‹Ma ha provato a parlarci? Secondo me Sofia si rende conto…››


‹‹…Ho paura››
‹‹Di che cosa?››
‹‹Di non vederti più…››
‹‹Ma sono qui, amore…››
‹‹C’è sempre più buio, qua intorno. Ma non fa paura… è un buio caldo… morbido. Come un letto. Ma è… un buio che cancella. Sì. Cancella… e io non voglio… perché sento che se cedessi, se mi arrendessi a quel calore…››
‹‹Non devi farlo. Non arrenderti…››
‹‹E poi, se cancellasse… come farei? Anche se restassi viva, non sarebbe come se…? Senza più coscienza, senza più ricordi… non sarebbe come se…?››


‹‹Ti ricordi di quando abbiamo rubato le ciliegie dell’albero del vicino, e mamma per punizione ci ha dato tre sberle a testa?››
‹‹Non erano tre sberle a testa. Erano tre sberle in tutto. Due a me e una a te. E mi presi anche una sgridata perché ero la più grande e non dovevo farti fare certe cose››
‹‹Davvero? Sei sicura?››
‹‹Certo. Ma lasciamo stare… piuttosto, raccontami com’è andata a Berlino…››
‹‹Oh, cielo, basta… ne possiamo fare a meno, per questa volta?››
‹‹Per questa volta…?››
‹‹Sì… parliamo d’altro››
‹‹…Cristiana, ma che succede…? Siete tutti un po’ strani, in questi giorni…››


‹‹Ormai dorme da più di quarantott’ore…››
‹‹Non aveva mai dormito così a lungo››
‹‹Sta peggiorando››
‹‹I dottori cosa dicono?››
‹‹Non so, ho mandato tuo padre a chiedere, stamattina, ma non è riuscito a sapere niente. Mai una volta che sappia imporre la sua autorità, santo cielo…››


‹‹…E cos’ha detto il medico?››
‹‹Te lo dico perché hai il diritto di saperlo, Rino. Ma non dirlo a mia moglie e a Cristiana, per ora. Glielo dirò stasera, con calma…››
‹‹Dio mio. E’ così grave…?››
‹‹…i dottori hanno detto che può solo peggiorare. I risvegli saranno sempre meno e sempre più brevi… fino a che…››
‹‹…Vado da lei››


‹‹Volevo dirti che… non m’interessa… non m’interesserebbe… se tu non potessi parlare, o sentire quello che ti dico… ››
‹‹Papà…››
‹‹Se anche io ti avessi qui vicina… sarebbe sufficiente… se potessi guardarti respirare, accarezzarti i capelli, sentire il calore della tua mano nella mia… se potessi osservarti mentre ti culla un sonno perenne e tranquillo…››
‹‹Papà, che stai dicendo?››
‹‹Sarebbe sufficiente, per me… sapere che sei viva, e al sicuro, da qualche parte…››


‹‹Sofia…››
‹‹Sì, mamma?››
‹‹Mi spiace per quelle due sberle››
‹‹Eh?››
‹‹Cristiana me l’ha ricordato qualche giorno fa. Quella volta che avete rubato le ciliegie al signor Ermanno e io ho sgridato te perché eri la più grande… me lo ricordo, sai… e volevo dirti che non l’ho fatto per cattiveria, l’ho fatto così… ma non perché ti volessi meno bene…››
‹‹Cristiana? E quando ne avete parlato? Non è a Berlino?››


‹‹Scusa l’ora. E’ che si è svegliata dopo una settimana che dormiva…››
‹‹Rino… ci hanno detto che potrebbe essere il suo ultimo risveglio››
‹‹…andate voi››
‹‹No, abbiamo deciso di far andare te››
‹‹Noi quello che dovevamo dirle gliel’abbiamo detto… e continueremo a dirglielo sempre, in tanti modi, anche quando non potrà più ascoltarci… ››
‹‹La terremo con noi, le staremo vicini… ci basta che sia viva, e che non soffra… ci basta sapere che c’è, e che forse è in un mondo più sereno di questo…››



‹‹Sai che mi sono fatta proprio una bella dormita? Mi sembrava di non dormire da anni. Ho anche sognato››
‹‹E cosa?››
‹‹Ero una trapezista in un circo. Camminavo su un filo sottile, mi sembrava di dover cadere da un momento all’altro, e poi invece non cadevo. Raggiungevo l’altra pedana senza vacillare, e mi pervadeva un senso di gioia e d’euforia tale che avevo voglia di spiccare il volo…››
‹‹Dev’essere stata una bella sensazione…››
‹‹Già. Un bel sogno. Credo d’averne fatto anche un altro, ma era più confuso››
‹‹E in quest’altro sogno cos’accadeva?››
‹‹C’eri tu... mangiavi una mela seduto a un tavolo. Ma ogni volta che ti portavi la mela alla bocca, lei ti passava attraverso… i tuoi denti non stringevano nulla… la mela rimaneva intatta…ed era come se… se l’immagine di te si stingesse… si sfilacciasse, in qualche modo…››
‹‹E poi?››
‹‹Non mi ricordo bene… la mela diventava luminosa. Sì, diventava un piccolo globo lucente. E a un certo punto si è disfatta in tante lucciole… che si sono diffuse tutt’intorno, e sono rimaste sospese in aria… e nel frattempo, dal basso, c’era come una macchia di buio, che saliva… avvolgeva le gambe del tavolo, la sedia, la tovaglia, la fruttiera, e poi te… te, fino al collo… amore, che c’è? Perché piangi?››
‹‹Non piango… anzi, mi viene da ridere››
‹‹Sei sicuro…?››
‹‹Sei così buffa. Sogni di essere una trapezista e mi fai ingoiare dal buio…››
‹‹Eh, mica è colpa mia!››
‹‹Lo so. Sei buona, tu… forse troppo, per questo mondo… ogni volta mi rimproveri perché non immagini, non ricordi di avermi visto, ma sono rimproveri dolci, come se in fondo sapessi che la colpa… non è di nessuno… ››
‹‹Rino, non credo di seguirti. Forse perché sono un po’ stanca…››
‹‹Scusami, amore››
‹‹Che strano, mi sono svegliata un’ora fa e ho di nuovo sonno… dev’essere il caldo››
‹‹Uhm, sì››
‹‹Sai, mi piacerebbe andare al mare, quest’estate…››
‹‹…››
‹‹Che ne pensi…? Oh, credo di avere un po’ di febbre. Mi si chiudono le palpebre…››
‹‹E’ un’ottima idea. Appena tornerà l’estate, ci andremo››
‹‹Allora è deciso. Santo Cielo, non so che succede, sembra un attacco congiunto di pisolini pomeridiani in arretrato…››
‹‹…››
‹‹Ti spiace, amore? Mi basta poco. Fammi dormire un’ora e sarò di nuovo vispa. Ah, di’ ai miei che appena mi sveglio voglio parlare con il dottore, e dirgli che mi mandi a casa in fretta, perché non ne posso più di stare in ospedale››
‹‹…Sì…››
‹‹Che strana cosa che è, il sonno… ci hai mai pensato? E’ come essere morti, eppure non fa paura… anzi, lo si ricerca come si ricerca un abbraccio, lo si mendica come fosse un rifugio…uhm, per favore, Rino, puoi restare qua un altro po’? Fammi compagnia mentre mi addormento…››
‹‹Certo, Sofia. Resterò qui. Resterò qui sempre. Quando riaprirai gli occhi, sarò ancora qua accanto al letto, con te…››

Linda De Santi
Input: Morbo di Merlino