domenica 14 ottobre 2007

Nato di Dolore e Rabbia

I Malhim avvinghiati a lui parvero esitare. Fu abbastanza per eccitarlo. Li aggredì senza pesarci due volte, anzi senza pensare affatto. Fu pura distruzione. L'atto stesso divenuto spirito e parte integrante della realtà. Distruzione.
Non si fermò nemmeno a bilanciare la presa sulle lame Siyr binate. Nemmeno dopo che il primo gruppetto di opponenti fu annientato. Abbadon roteò vorticosamente verso il fitto dei nemici, fendendo aria con il suo odio primordiale. Proprio dove lo stavano aspettando, proprio dove il nemico era più forte. Urlava e rideva come un bambino impazzito.
Gli arti delle macchine da guerra celestiali, caduti a terra come grano durante la mietitura. Maledisse il proprio spirito per la bellezza di quella distruzione. Cadendo a terra i moncherini straziati ed i loro corpi componevano il glifo in Enochiano corrispondente al concetto di Odio. Non riusciva ad essere semplice impulso nemmeno in quel momento. Imprecò. Non riusciva a privarsi della ricerca della Bellezza per quanto furiosamente provasse. Colpì e uccise ancora e ancora fino a quando non vi furono più nemici o amici attorno a lui e niente altro da disegnare con i loro resti.
Ali completamente in fiamme sorsero dalle sue spalle come un vulcano pronto ad eruttare.Del torrione primario su cui aveva appena combattuto non restavano che le macerie, come nel resto della cittadella in rovina. Macerie malate, insozzate con i corpi e le anime consumate nell'odio. Tutto questo non acquietò la sua sete di vendetta e Morte. Dinnanzi a lui gli ultimi fuochi della battaglia, la caduta della sua Capitale, la fortezza interna demolita fino all'ultima pietra nera. Le sue truppe, la sua guardia del corpo, l'intera Legione d'Ebano massacrata. Non era importante quanto lui singolarmente fosse più potente o quanti ne abbattesse. Non faceva in alcun modo la differenza. Per ogni Malhim abbattuto o distrutto, altri dieci arrivavano discendendo dai cieli luminosi. Stupidi e ottusi, continuavano ad arrivare come un oceano impazzito, inarrestabile ed infinito.
La furia di Abbadon aumentò insieme al suo potere. Osservò il Gran Disegno dispiegarsi, minuzioso ed implacabile davanti ai suoi occhi impotenti: no, i suoi cavalieri infernali non venivano distrutti, venivano metodicamente immobilizzati e catturati. A loro non era concessa morte o una onorevole distruzione. La degna fine per un guerriero. No, a loro, Caduti, non era permesso andarsene semplicemente. Paventava una fine ben peggiore. Tutti loro ne erano sempre stati consci ma nessuno nella Legione D'Ebano e tanto meno il loro Principe aveva mai osato anche solo pensarci. Ora era davanti a lui. La sconfitta e la cattura.
I suoi pensieri lo avevano distratto per troppo tempo, un battito di cuore umano o poco più. Attorno a lui, in mezzo a quella distesa di macerie, fuoco e fumi d'inchiostro non vi era nemmeno un Caduto. Soltanto un oceano di mostri celestiali e luminosi. Nessuno di loro poteva guardarlo dietro quelle loro orrende maschere di luce. Ma riusciva a leggerci dentro la bramosia. La contraccambiò. Urlò. Le onde soniche sconvolsero il selciato residuo. E mentre macerie e lava esplosero, la terra stessa si aprì sotto di lui.
Dispiegò le sei ali, che presero fuoco all'istante più ardenti che mai. Il Cielo pianse.
Abbandonò le lame Siyr, assorbendole e conficcandosele dentro gli artigli. Ne assunse direttamente la forza distruttiva. Un dolore persistente gli testimoniò il successo della trasmutazione delle Siyr in artigli, accompagnandolo nella sua crociata di morte. Non voleva metalli estranei nella sua scia di mutilazione e morte. L'aria si infranse, sibilando, torcendosi fino a collassare completamente.
Con tutta la potenza e la disperazione di un principe dannato, Abbadon li caricò. Distruzione e Amore per la stessa, le uniche forze dentro di lui. Consumato ed alimentato da Rabbia e Vendetta.
L'energia delle Siyr, intrappolate nelle sue braccia e nei suoi artigli, lo divorava, da dentro a fuori, ma sua forza era incrementata a dismisura. L'unico modo di affrontare una battaglia impossibile come quella. Alcuni Malhim cessarono di esistere all'impatto con l'Arciduca, una volta vassallo di Lucifero. Per ogni anima consumata la forza vitale di Abbadon veniva indebolita a sua volta. - Un stilla della mia anima per la vostra morte ultima - ecco l'evocazione ossessivamente cantata dal principe demone. Per quanto fosse impossibile anche da concepire, lungo un lento rabbioso respiro apparve del suolo libero attorno all'Arcidiavolo, tanti furono i caduti tra i Malhim. Digrignò i lunghi filari di denti della forma Apocalittica in cui era imprigionato da ore. Respirò fiamme e odio, nutrendosi di entrambi, in un'estasi rapita.
Sui non-volti degli automi celesti apparve il glifo corrispondente al concetto più spregevole per un caduto: Prigione. Abbadon rimase cupamente in attesa fino a quando l'Oceano di Malhim davanti a lui non fu interamente decorato con quella runa. Dalle spaccature del fine marmo decorato, un fiotto di magma delle profondità più recondite del pianeta scaldò gli zoccoli dell'Arciduca, ribollendo senza requie.
Repentino e implacabile Abbadon si scagliò verso il più vicino degli automi, che per quel breve istante parve farsi piccolo e quasi indifeso. Lo afferrò e percepì la marionetta incompleta che stringeva tra gli artigli insanguinati. La scosse. La studiò. La punse. Ci giocò come il giocattolo che sembrava essere. Lo trafisse. Nemmeno un movimento da parte della schiera attorno a lui. Gli strappò gli arti inferiori. Nemmeno un lamento, nemmeno una reazione di vendetta attorno a lui. Gli strappò le mani una alla volta. Le Siyr Celesti caddero a terra inghiottite nel magma, ma le braccia del Malhim vennero consumate lentamente una molecola alla volta, con tutta l'agonia che un Angelo Superiore come Abbadon poteva risvegliare in un corpo tanto resistente. Nessuno urlò, nessuno si mosse. Abbadon lo fece. Colpendo con tutta la veemenza impazzita, il suolo si spaccò in due e si divise. Una tempesta di lava infuriava in mezzo alla schiera celeste che lo circondava, dividendola.
"Nefandezze immonde! Ho dilaniato, mutilato ed umiliato il vostro stupido fratello. L'ho fatto soffrire con una tale arte che anche Lucifero, il Principe Rinnegato, avrebbe pianto... E voi patetici fratellini minorati non avete nemmeno mosso un dito. Nessuno di voi vale anche solo un arto di questo guerriero. Lui sta conoscendo il concetto finale: quello che attende tutti voi! Lui, finalmente, nel suo silenzio ottuso, comprenderà. Ora, proprio in questo istante:Il Dolore..." tuonò l'Arciduca Infernale, incidendo il glifo corrispondente dentro l'anima del Malhim. Senza emettere alcun gemito, la forma straziata cominciò suo malgrado a tremare convulsamente. Tale era il potere di Abbadon, padre e maestro nell'arte delle percezioni superiori. Dolore, ecco cosa era diventato il Malhim. "... Ma questo a voi non basta? Dico proprio a Voi!" il ringhiò divenne più cupo, mentre gli occhi di Abbadon si volsero verso il Cielo. Le schiere di Malhim impassibili non si mossero, completando idealmente lo schema di accerchiamento attorno all'ultimo Caduto rimasto libero nella cittadella. Un virtuosismo sterile ed impassibile. Perfetto e bellissimo. Come solo il Gran Disegno e l'Ineffabile Michele avevano potuto concepire.
"Siete ornati da maschere di Luce. Quale immeritato premio per le vostre ignobili carcasse. Non meritate la Luce. Non l'avete mai scelta. Non l'avete mai amata... né odiata!" gli occhi di Abbadon si chiusero, un sorriso silenzioso dipinto sul suo volto.
"Non vi nasconderete più alla mia vista, macchine spregevoli." e conficcò con la massima forza gli artigli dentro la maschera del Malhim, strappandola dalla carne angelica un brandello alla volta, nella maniera più dolorosa possibile. E per il legame simbiotico delle Siyr dentro di lui, Abbadon stesso attraverso le mani, subì parte di quel dolore. Trasalì, scoprendo ben presto che quella non era una semplice maschera corazzata, ma la cagione stessa del costrutto angelico, prigione e nutrimento stesso della sua anima malforme. Scoprì l'angelo deforme e avvizzito al di là del velo di luce. Si odiò nell'istante in cui la compassione fece capolino nella sua rabbia pura ed incontaminata. Maledisse la sua nascita nell'Amore del Creato e la ripudiò con ardore e passione.
"E' questo, in ultima istanza, che siete... miseri angeli... indegni di portare la fede o il peso della scelta. Incapaci di Cadere.... Voi siete... semplice... Nulla!" e così come spazzò via il concetto stesso dalla sua mente e dal suo cuore, dissolse il volto sfigurato del angelo morente tra le sue braccia. Ma si premurò di allungare nel tempo quel dolore al massimo possibile. Rise, cupamente. Tremò dentro per tutto il male ed la rabbia che era in grado di contenere. Quel giorno, tutte quelle macchine di morte, quegli angeli feriti ne avrebbero goduto. E lui sarebbe caduto sconfitto sì, in catene ma in gloria, marchiando quegli stupidi e miseri giocatoli per sempre.
-Fratelli, quanto siete patetici, vi disprezzo e vi ammonisco. Voi non siete per me pari. Voi non siete Niente.- Pensò freddamente Abbadon, seppellendo questo singolo pensiero nel magma ribollente del suo spirito.
Nell'attimo in cui la Schiera Implacabile si avventò all'unisono contro l'Arcidiavolo, lui attaccò a sua volta. E su tutti i Malhim, l'oceano silenzioso ed inarrestabile che stava abbattendosi su di lui, comparve l'Evocazione in Enochiano "Unione". Ma nella sua infinita perfidia Abbadon non condivise la forza dei suoi attacchi, il suo desiderio di morte. Quello che condivise fu l'unica scintilla di autocoscienza del Malhim prima della propria dipartita. L'autoconsapevolezza della solitudine. Di quanto fosse inerte nei confronti dell'Esistenza, di Abbadon, dei Suoi Fratelli storpi e menomati e soprattutto nei confronti del Creatore. Quella solitudine colpì la schiera dei Malhim nello stesso istante in cui Abbadon fu intrappolato e sconfitto e in un modo completamente nuovo lui nacque come vero Demone. Nel Dolore e nella Rabbia.
Quando Michele posò gli occhi sulla scena, seduto sul suo trono di luce, con orrore misto a disgusto constatò la forza di Abbadon. Tenendo fede al suo nome ovvero "Distruzione", aveva, sebbene sconfitto, annientato l'intera armata preposta alla sua cattura. I volti straziati e senza maschera, di mille fra i più terribili Malhim giacevano scomposti e morenti ai piedi dell'Arciduca Infernale intrappolato. Irrecuperabili. Soli e in preda a rabbia, impotenza e dolore. L'Abisso inghiottì Abbadon, portandosi via insieme a lui, quei rifiuti tanto scomodi alla Schiera Angelica. E anche quella cittadella demoniaca fu purificata dai Caduti. Non rimaneva che Gennhinnom e La Stella del Mattino da conquistare, un piacere che il Primo fra i Sette pregustava da tempo immemore. Abbadon aveva solo stimolato il suo appetito.


Alessandro Sidoti

sabato 13 ottobre 2007

Senza volto

L'orizzonte non era mai stato tanto piatto, sterile e vacuo come quella mattina.
Il pulviscolo e la cenere attorno a lui e soprattutto dentro di lui, lo soffocavano. Il peso della colpa unito alla solitudine rendeva il semplice atto di rialzarsi un supplizio. Ma la Stella del Mattino ciononostante si rialzò. Solo fiamme e devastazioni attorno a lui, suoi figli e figlie.
Non vi era luce, aloni di potere, fierezza, solo una infinita tristezza e, sebbene fosse tanto difficile ammetterlo, un senso di sconfitta totale e definitiva. La condanna doveva arrivare eppure lui si sentiva giudicato da tanto,troppo tempo, senza possibilità di appello alcuno.
Scrutò il cielo mestamente.
In una spirale cadente, una piccola stella ferita cadde dal firmamento. La luce intermittente era ancora fortissima. Troppo forte per un Elohim, e tantomeno per un Caduto. Qualcuno della Schiera Celeste era stato lasciato indietro. Estese la propria percezione, seppure ferito e incapace di osservare con precisione. Gli ci volle soltanto un istante. Capì subito.Appena ebbe piena consapevolezza di cosa stava osservando fu afferrato da un senso di angoscia ed inspiegabilmente da una tenerezza infinita.
Le Catene della Condanna erano rientrate in lui, dentro la fibra stesse della carne angelica. La sua pelle una volta candida ed immacolata erano stata marchiata per sempre. I suoi polsi, le sue mani e le sue Ali portavano lo sfregio e il disprezzo del Volere Ultraterreno. La vendetta di Michele prendeva in forma in quel superbo tatuaggio vivente che era ora mai diventato. Il dolore fisico era certo poca cosa per chi aveva patito nel vedere la propria gente, amati fratelli e amate sorelle, scomparire inghiottiti dal Nulla, ma le sue braccia e le sue Ali erano letteralmente in fiamme. Le catene non erano scomparse ma anzi scavavano in lui un vortice di puro dolore, spirituale e fisico, come memento della sua colpa. Affinché non dimenticasse mai. Quelle carni tatuate gli avrebbero fatto compagnia per sempre, ne era certo. Quando spiccò il volo per raggiungere la meteora appena caduta, sentì uno spasimo. La punizione per usare le abilità Angeliche. Non vi era alcuna sottile ironia in quel tormento, riconobbe la rozza mano di Michele. Ma quel dolore lo definì, gli diede forza. Volare e librarsi nell'aria gli sarebbe davvero costato caro ogni volta, ma proprio per questo lui avrebbe continuato a volare nell'Etere e nella bellezza ferita del Creato. Quasi che staccarsi dal suolo, fosse a tutti gli effetti la sua risposta al Grande Disegno ed al suo Sommo Artista.
"Non sono ancora vuoto. Ho ancora amore e desiderio dentro di me... Ho ancora fede !" annunciò al Cielo con fierezza e umile sdegno. Volò, rapido e sicuro, senza lasciare che né le orribili correnti residue della battaglia né il male causatogli dalle catene deviassero il suo percorso. Un volo delicato ed elegante come solo la Prima Stella del Mattino avrebbe potuto danzare.
Giunse ad una pianura ancora avvolta dalle fiamme. Un solco nella nera terra ampio come il letto di un fiume. Volute di fiumo cinereo ad oscurare il cammino. Quelle rovine era state una delle città minori, un bastione appena al di fuori della sua Gennhinnom.
Nonostante le fiamme oscurassero il cielo, proprio nel punto dell'impatto, ed il calore distorcesse la vista, riuscì ad identificare subito la forte luce intermittente.
Gli occhi si riempirono di lacrime. Comprese subito la causa di quella intermittenza.
La creatura era ferita. La Luce la avvolgeva. Era senza volto.Menomata al di là della capacità di qualunque Elohim di guarirsi. Ma non erano certo state le ferite mortali della battaglia finale o l'impatto, era stato il Volere Superno a ridurlo così. Lucifero pianse al colmo della sua rabbia.
Si avvicinò lentamente, con timido rispetto. Le ferite esterne stavano già rimarginandosi, anche quelle create dalle lame Siyr dei Caduti. La resistenza di quel corpo,seppure di origine angelica, era inconcepibile, ma a quale prezzo era stata ottenuta.
Nelle battaglie precedenti, durante il fallimento del Grande Esperimento e la Distruzione dei Nephilim, aveva abbattuto dei Malhim coadiuvato dalle sue schiere e dalla possente guardia reale di Nazathor. Non li aveva mai realmente guardati da vicino. E in cuore suo aveva sempre sperato fossero semplici ordigni di fattezze vagamente angeliche non diversi dalle lame Siyr, massacratrici di Elohim. Ma l'inganno era durato anche troppo a lungo. Aveva chiuso gli occhi per troppo tempo e l'alone di luce impenetrabile dei Malhim era stata solo una misera scusa. Per troppo tempo aveva scordato il suo amore, e la furia della battaglia l'aveva privato della vista e del coraggio di guardare oltre quella maschera luminosa.
Fissò quello che avrebbe potuto essere un angelo bellissimo. Lo spogliò della luce, intermittente e malata, uno strato dopo l'altro. Fu doloroso e altrettanto necessario. A prima vista ogni Malhim sembrava assolutamente identico, corazzato, con armi, spine e catene e mai un volto da mostrare per nessuno amico o nemico. Per Volere Eterno, erano semplicemente una forma di incarnata Distruzione e niente più. Il loro volto era oscurato da una luce tanto intensa che qualsiasi Elohim era incapace di fissarla troppo a lungo. Questo manto luminoso, anonimo e violento, assisteva il guerriero Malhim in battaglia, rubandogli al contempo coscienza ed individualità. Costruito soltanto per sconfiggere i Caduti. Questa forse la bugia più grande. I Malhim non erano costruiti. No, non erano nemmeno armi superiori, come le Siyr o le corazze infernali. Non erano finimenti delle Fucine della Legione di Ferro. Erano fratelli, esseri viventi e senzienti, torturati dalla nascita. Sorelle incatenate per un singolo solo scopo, sconfiggere la Ribellione, ed umiliare Lucifero ricordandogli quanto male diretto od indiretto aveva recato con le sue scelte. Una intera generazione gettata nell'Abisso prima ancora che l'Abisso stesso fosse creato. Soltanto per lui, si ripeté. i Malhim nascevano torturati e menomati soltanto per punire un solo Angelo Ribelle.
Il dolore crebbe in lui. La creatura devastata lo aveva appena notato. Percepì il suo desiderio di combattere. Il desiderio divenne furia. La furia si tramutò in lucida follia. Il Malhim venne sconvolto da convulsioni fortissime. Lame apocalittiche apparvero nelle sue mani ferite. Saettando vorticosamente attorno a lui senza controllo. Poi improvvisamente, come se qualcosa si fosse spento in lui, si fermò. Una marionetta rotta, nelle mani di un burattinaio che più non si curava di lei. Il Malhim smise di agitarsi, ma solo per qualche momento. Poi con rapita e malata precisione ricominciò la danza della follia, colpendo il nulla senza più fermarsi.
Il Primo tra i caduti urlò silenziosamente, maledicendo ancora una volta la crudeltà del Gran Disegno. Dapprima afferrò le mani possenti della creatura morente. Si ferì nel vano tentativo di arrestare il suo impeto rabbioso, ancora e ancora. A nulla valse la forza fisica. Il Malhim era superiore fisicamente anche in quelle condizioni. Riprovò una seconda volta, aggiunse preghiere e suppliche insieme alla forza. Lo implorò di fermarsi, di ascoltarlo. Lo implorò di lasciarsi curare. A nulla valsero le preghiere.
Chiuse gli occhi. Rilassò il proprio corpo, smettendo di pensare alle ferite insopportabili delle Lame Apocalittiche. Lasciò scorrere via tutta la furia accumulata durante la battaglia finale sopra Gennhinnom, e dopo la sconfitta e la punizione. Non si calmò completamente, tanto era il tormento dentro di lui, ma riuscì a vedere la propria anima alla fine del tunnel della disperazione. Riaprì gli occhi mentre le prime stelle del mattino, le piccole sorelline del creato, facevano capolino su un'alba tanto bella quanto terribile.
"Fratello mio..." pronunciò quelle parole con tutto l'amore di cui la sua voce fosse capace. Avvicinò non le braccia, né il suo corpo, ma solo il volto. Inerme. Rilassato. Vulnerabile quanto un bimbo verso la propria madre.
Il Malhim reagì fulmineamente, mal interpretandolo come gesto di sfida. Il suo spazio era stato violato. Sebbene mutilato nei sensi era ancora in grado di percepire l'aura della Stella del Mattino. La luce divenne ancora più fulgida e mostruosa, intermittente e orribile. Una Lama Apocalittica si conficcò nel collo di Lucifero. Il dolore non impressionò il Grande Caduto. Dentro di lui solo la consapevolezza che l'Amore e nulla altro era necessario per avvicinarsi vivo a lui.
"Non ci siamo dimenticati di te, amato Fratello..." continuò il Portatore di Luce, rivestendo le ultime parole di empatia. La seconda scarica di colpi lanciati dal Malhim fu impercettibilmente più lenta della prima. Le spalle del Primo Caduto vennero ferite gravemente in più punti e anche le Ali subirono un fato non diverso. L'autocontrollo fu difficile questa volta. La voglia di ritrarsi e di combattere crebbe in Lucifero. Ma ancora una volta si trattenne, intuendo dove l'atrocità del Disegno Celeste risiedeva. Il meccanismo stesso alla base del concetto di Malhim. Nato per odiare e ancora di più nato per farsi odiare. Un motore infinito, che si rinnovava per sempre, virtuoso e atroce. Capace di alimentare intere schiere di mostri mutilati in grado di suscitare tale odio, paura da autoalimentarsi fino alla fine dei Tempo stesso.
Baciò il Malhim. Dapprima non riuscì a discernere i tratti. La Luce Divina lo avvolgeva come una maschera. Ma l'impulso intermittente era sempre più debole a causa dei danni subiti. Qualcosa, malgrado tutto, stava facendo breccia nella mente del suppliziato. Lucifero era giunto più vicino ad un Malhim di qualsiasi altro Caduto. Ed era ancora vivo. Certo le sue ferite bruciavano come se fossero avvolte dalle fiamme, ma la sua personale scommessa era in un certo senso vinta. Gli bastò osservare quel volto sfregiato, imprigionato nella stessa armatura. Fu la visione stessa di quello che veramente era un Malhim a colpire la Stella del Mattino.
Non trattenne oltre l'odio dentro di sé. Per la prima volta, una rabbia mille volte superiore a quella dell'Arciduca Infernale Belial ed ai suoi fratelli lo sconvolse. Che cosa aveva permesso Michele. Che cosa mai aveva potuto accecare la Schiera Lealista fino a punto. Lasciare che il Volere Superiore storpiasse una creatura completa e splendida come quella, in un ordigno di vendetta. La guerra, la vittoria, la supremazia non valevano tanto.
Non vi fu spazio per le lacrime o per l'amore questa volta. L'odio riempì il cuore del Primo fra Tutti. Un odio intenso e viscerale. Il senso di impotenza si trasformò in bramosia di vendetta. E cadde ancora una volta. Cadde nei propri principi. Cadde nella propria Fede verso la pace, l'amore e l'Uomo.
Il Malhim reagì all'istante. Brandendo nuovamente le lame verso Lucifero colpì con la massima forza di cui era capace.
La reazione della Stella del Mattino, in preda alla furia primordiale, fu altrettanto feroce e brutale. Afferrò entrambe le braccia corazzate del abominio celeste e le spezzò senza nemmeno guardarlo. Con uno schianto secco entrambe le lame assassine finirono a terra.
Il Malhim non urlò. Il Malhim non pianse. Il Malhim non soffrì. Semplicemente smise di attaccare con le braccia. Il corpo stesso divenne un'arma. I pezzi di armatura graffettati alla stessa carne angelica divennero spunzoni, punte, uncini. Le stesse lame partivano da dentro il Malhim, ferendolo a sua volta, con l'unico scopo di permettergli quell'ultimo disperato attacco suicida. Nella battaglia sopra Gennhinnom era successo molte volte. Nessun Malhim lasciava il campo dell'esistenza senza portarsi via almeno un singolo Caduto con se. Nessun Malhim, mai, era stato catturato vivo. Mai. La creatura menomata ed in fin di vita si catapultò con quanta energia le era rimasta verso la Prima Stella , senza emettere nemmeno un suono, senza il canto dell'anima che ogni Elohim ininterrottamente intesseva per il proprio Creatore, come atto di estremo amore.
"Distruzione". Lesse per la prima volta il carattere in Enochian sulla fronte del guerriero suicida. Lesse e comprese finalmente la chiave. Il Tempo si fermò col fiato sospeso. Lucifero rallentò l'attacco, rallentò lo stesso fluire degli eventi.
Le lame Siyr della Stella del Mattino, scomparvero ritornando nel Vuoto da cui erano state evocate. Gli servivano le mani libere. Ma, ancora di più, il cuore libero. Fu molto più difficile questa volta. Le ferite urlavano vendetta. La sua rabbia urlava vendetta, non certo verso il Malhim ma verso tutti gli Elohim Lealisti, e verso il Gran Disegno. Lì perdonò, suo malgrado, a malincuore, li perdonò e perdonò anche se stesso per aver causato tutto questo. La rabbia e la vendetta scomparvero. Fu un singolo istante, ma bastò al Principe Esiliato. Toccò la fronte del Malhim e con un gesto paterno, sfiorò la runa enochian della Distruzione. Gentilmente la cancellò. I sigilli sulla bocca del Malhim questa volta non lo trattennero più. La museruola odiosa incastonata nella sua bocca cadde a terra. Il Malhim urlò oltre la maschera di metallo celeste, oltre i limiti che gli erano stati imposti. Urlò il proprio dolore, la propria impotenza, il proprio desiderio di vendetta. E alla fine quando tutto venne espluso devastando la valle circostante, esplosa per la sola furia di quelle parole, al Elohim riportato in vita, rimase un ultimo disperato lamento. Il bisogno di amore e di amare il Creatore. Ecco il motore stesso del Malhim. Era stato privato completamente della capacità di lodare, amare e cantare per il Creatore stesso. La pazzia alimentava la furia cieca, la deprivazione completa di quel amore e della possibilità di esprimerlo in qualsiasi modo era la cagione stessa di quell'arma immonda conosciuta ai Caduti e ai Lealisti come Malhim.
Lucifero non curante delle ferite di entrambi abbracciò l'ordigno che una volta era stato un possente Elohim. Lo abbracciò con rabbia, con amore, con ardore, con dolore. L'abbraccio fu brevissimo, quasi un singolo attimo, rubato al continuum.
Successe.
Il Malhim riprese a pensare da solo. Non più un'arma contro la schiera dei Caduti. Non più un guerriero lobotomizzato nella sua passione più pura. Ma di nuovo un essere senziente incapace forse di scegliere ma capace di consapevolezza e devozione. Vivo e completamente a pezzi. La bocca del angelo deforme spezzò i legami, il metallo di Ur delle fucine celesti, la sua voce il suo canto roco, perforò l'aria aspra e tersa della prima mattina. Arrivò fino al cielo e ancora più su sino ai Troni e alle Potenze, e ancora di più sino ai Sette, fino all'Arcangelo Michele. E ricadendo al suolo tentò in vano di raggiungere anche i meandri dell'Abisso. Lucifero percepì che la vita del angelo stava volgendo al termine. Il ritorno alla vita gli era costato la stessa. Ed era solo tormento quello che rimaneva in quegli ultimi istanti di esistenza.
Veloce più del suo stesso pensiero ma così lento per una anima tanto dolorante, il Primo Caduto afferrò le lame Apocalittiche dai moncherini a terra.
"Non ti abbiamo mai dimenticato... Idshael, mai nato della Prima Casa dell'Alba... e mai lo faremo, dolce fratello ritrovato e ancora una volta perduto" le parole uscirono dalla mente di Lucifero, tristi come le macerie di Gennhinnom.
Idshael, si volse un'ultima volta verso la Stella del Mattino, mentre le lame divoravano finalmente le sue carni evocate e potenziate oltre l'immaginabile. Sorrise, pianse e visse un lungo singolo istante di vita autonoma. Libero dalle catene. Capace di parlare e di pensare e di amare anche solo una volta il suo adorato Creatore. In un finale di luce, si dissolse nell'Etere, raggiungendo le Sfere Superiori. A nessun Malhim veniva concesso il ritorno nei Cieli Superni, Idshael era a tutti gli effetti il primo. Lucifero morì con lui. Ma non c'era alcun modo di salvarlo. Entrambi ne erano consci fin dal momento stesso in cui era stato liberato. Un Malhim libero cessava semplicemente di esistere fra mille tormenti. Distruggerlo era forse l'unico atto realmente misericordioso.
La Luce scaturita dalla morte del Malhim risplendette sulla dannazione della Stella del Mattino, sulle macerie e sulla terra devastata attorno a loro. Fu una bella luce, calda e sincera, triste ed orribile. Raccontava della dipartita di una arma e della salvazione di una anima incompleta. E per un Angelo dell'Alba perduto e condannato a vagare sulla terra fino alla fine dei tempi, un altro poteva innaturalmente fare ritorno a casa.
Lucifero sentì l'Abisso farsi un ciottolo di sabbia più vicino. Lo agognò ancora una volta. Bramò prendere il posto del suo popolo costretto in ceppi di puro Nulla. Il dolore era insopportabile, nonostante tutto. I suoi fratelli irrimediabilmente dannati. Ma la nuova battaglia, senza eserciti celesti, era appena cominciata. Una molto più lunga e dolorosa, ma soprattutto molto più solitaria e cupa. Ed era cominciata proprio dentro di lui.
Alzò lo sguardo in tempo per vedere una stella del firmamento, fulgida e splendida questa volta, scendere davanti a lui.
In tutta la sua impersonale bellezza il Messaggero, conosciuto una volta come Gabriele, carezzava l'aria avvolto dal fuoco e dalla luce. Il suo viso era completamente inumano e la espressione di una insolita indifferenza. Fece un accenno di inchino. I ceppi e le catene della caduta Gennhinnom tatuate fuoriuscirono dalle carni del Primo fra i Caduti, costringendolo nuovamente a terra, inerme ed impotente.
Il Messaggio era giunto con le ultime disposizioni per la sua Condanna. E ancora peggio, con esso, la vista del dolce Gabriele ridotto ad un semplice messaggero impersonale e meccanico. Michele aveva davvero sorpassato se stesso questa volta.
"Parla Messaggero, che una volta fosti l'Ineffabile Gabriele!" ringhiò verso il cielo Lucifero.