mercoledì 28 marzo 2007

Aprire gli occhi

Aprire gli occhi.
Solo questo. Aprire gli occhi e il gioco è fatto.
Quante volte le era già capitato senza neanche farci caso. Tutte le mattine della sua vita, almeno.
Ma questa volta è diverso. Ne ha paura. Solo al pensarci, sente salire su per la gola, fino alle viscere della sua bocca il sapore amaro e acre del dolore. Proprio non ci riesce, questa mattina proprio non vuole.
Quella volta certo, fu tutta un’altra cosa.

La storia raccontata ai suoi era andata liscia, come tutte le altre volte che seguirono del resto. Sarebbe andata a cena con Linda in un localino appena fuori città per festeggiare qualcosa, qualunque cosa, non ricorda neanche più.
Linda, da parte sua, faceva lo stesso con sua madre in caso di controlli incrociati o semplici incontri casuali, ma fatali, delle mamme, alle quali sappiamo bene quanto piace chiacchierare, e più che mai delle proprie figlie.
Per dopo poi serviva una bella svolta alla storia. Ci avevano pensato e ripensato nel pomeriggio e alla fine erano riuscite ad escogitare un mitico pigiama party, rigorosamente tutte bimbe.
La spettacolare trovata di Linda, che rendeva la tanto irreale quanto assolutamente passibile di controllo o svelamento, consisteva nel luogo. Sarebbero infatti andate nella vecchia casa di un’amica che aveva appena traslocato con i genitori, ma ancora aveva le chiavi dell’appartamento dimesso.

Arrivò a casa di Andrea alle otto in punto.
Non stava nella pelle e, durante il viaggio in motorino, si sentiva fantasticamente felice.
Salì le scale ripensando a Linda, all’abbraccio che le aveva appiccicato addosso prima di lasciarla quel pomeriggio. Se la sentiva dentro, nel cuore e aveva stampato nella memoria il suo sorriso, dolce e complice.
Andrea la rapì da ogni pensiero e le rubò ogni anelito sorto a pronunciare un saluto. La baciò in modo dolcissimo, tirandola a sé e intanto chiudeva la porta dietro di lei.
“Finalmente sei arrivata. Cominciavo a preoccuparmi.” Le disse.
“Guarda che sono le otto adesso! Non sono in ritardo. Proprio non puoi stare senza di me, vero?”
Lui schernì allora il suo imbarazzo da batticuore maschile voltandosi e avvicinandosi alla cucina. La sua preoccupazione aveva fatto breccia nel cuore di lei.
“Lascia pure le tue cose in camera e vieni qui ad aiutarmi.”
Da allora non si sarebbero più staccati un attimo per tutta la sera. La magia ebbe inizio.
I loro sguardi si legavano indissolubilmente l’uno nell’altro mentre si davano da fare in cucina.
Le luci in casa erano tutte accese e il gatto poltriva in salotto ma appena iniziarono a mangiare, li raggiunse.
Si divisero un intero barattolino di gelato assaporando il fresco sapore di sorrisi mascherati di pudore ma carichi di desiderio. Delizioso refrigerio; unico contatto fisico rimasto con l’ambiente, saturo ormai di passione.

Sentiva il corpo di Andrea appiccicato al suo, centimetro per centimetro, sfiorare la sua pelle e avvolgerla. Il cuore le si riempiva di pace e la mente di entusiasmo e gratitudine.
Infinita dolcezza guidava ogni movimento delle quattro mani vergini e innumerevoli baci e aneliti riempivano la penombra.
Rimasero soli. Il gatto sgattaiolò fuori.
Nel letto, stretti l’uno dentro l’altro esplorarono la gioia di amarsi.
Lei lo guardava. Cercava i suoi occhi per rispecchiarsi nella felicità.
Godevano di ogni bacio, di ogni carezza, dello scontro dei loro corpi.
Le loro membra si erano unite a formare un’unica anima che si muoveva di istinti propri.
Puro impulso, desiderio, eccitazione e amore.
Respiravano l’uno dell’orgasmo dell’altra, lasciandosi penetrare dall’anelito liberatorio e vittorioso esalato dall’altro.
Assoluta sensazione di potere e appartenenza allo stesso tempo.
Quello che seguì poi, fu il sonno più profondo e sereno di tutta la sua vita. Rifugio miracoloso del suo corpo e della sua anima, esausti ma assolutamente vivi.
Poco a poco scivolò nel sonno più leggero e riprese contatto con il giorno che intanto si era svegliato.Allora non desiderava altro che aprire gli occhi e tornare a vivere del sorriso di Andrea, del suo bellissimo viso, delle sue mani e del suo corpo.
Si voltò sul fianco destro e lentamente liberò il suo sguardo. Lui era lì. Le sorrideva, ammirandola.
Era vestito, sdraiato vicino a lei, dall’altra parte del lenzuolo.
Tra loro, una rosa rossa carminio a gambo lungo senza spine ed un sacchetto di carta bianca latte che emanava delicatamente un gustoso tepore.
Quella rosa rimase tatuata nella sua mente. E tutti i sorrisi e le promesse di quella notte riposano in lei custoditi come la vita di un tempo che fu, all’interno di una conchiglia.
Solo non le basta più vivere di ricordi. Adesso vuole la sua presenza. Ancora e di nuovo.

Aprire gli occhi almeno per una volta, con spensieratezza e forse anche ingenuità ma, soprattutto, con speranza e pace.
Aprire gli occhi e basta. Senza guardare, scoprire e non trovare.

Giacometta Battisti
Input: Conchiglia fossile
(Personaggio dall’osservazione di un soggetto estraneo ma di incontri frequenti.--> manca)
Frase di una canzone sentita all’autoradio: “non basta più il ricordo, ora voglio il tuo ritorno.” di Tiziano Ferro

C’era una volta

C’era una volta, in un tempo non molto lontano, un re.
Era un re speciale. Di tutti i gatti del paese, era il re. Rosso, era il suo nome e il colore della sua coda.
Fiero e lucido, era rispettato da tutti i suoi amici e dalle amiche era ammirato e sognato.

Un giorno, mentre passeggiava tranquillo lungo il fiume, uscito per sgranchirsi un po’ le sue quattro zampe lunghe, si fermò per un attimo a riflettere e decise che non aveva più voglia di vivere solo; voleva un padroncino.
Si sarebbe addormentato arrotolandosi ai suoi piedi e, al mattino, sarebbe balzato cheto cheto vicino per leccargli la manina, rimasta fuori dalle coperte e, così, svegliarlo.
Avrebbero bevuto insieme il latte e, al suo rientro, avrebbero giocato rotolandosi sul tappeto.
Così, iniziò la sua ricerca.

Si alzò di primissimo mattino e si mise in cammino.
Si allontanò pian piano dal paese e lasciò dietro di sé, nel sonno più profondo, gli amici cullati dal fruscio dell’acqua che scivolava nel suo letto.
Attraversò tutti i campi, saltellando veloce per non affondare le zampette nelle zolle di terra fresca, ancora vestite da notte con la brina luccicante sotto il riflesso del cielo stellato.
Qualche bruco, avvistato Rosso in avvicinamento, lesto lesto tornava a imbucarsi nella terra calda, sotto sotto.

Finalmente, balzando oltre il fosso, arrivò sulla strada. L‘attraversò calpestandola con le zampe vestite di calzini pesanti di terra e fango.
S’infilò poi dentro un giardino, strofinandosi addosso ad una piccola bicicletta gialla lì sdraiata. Era il più bel giardino della casa più bella. Bianca, con tante finestre verdi ed un grande portone rosso.
Ai piedi della porta, ritto, fermo e vigile, un gatto faceva la guardia, tutto bianco con dei pallini rossi e sul collare, dipinto, il suo nome.

“Ma nonno!” – fece Andrea, ancora sveglio e attento – “ è Bianchina, la mia gatta! E la bicicletta gialla è la mia!!”
Sorrisi e accarezzai il suo viso tondo.
La porta si aprì di uno spiraglio e in un attimo il gatto balzò sul letto.
“Nonno, guarda! E’ entrato ma non ha le zampe sporche come nella storia!?!”
“Già, tesoro. Nella storia. In un tempo non molto lontano.”

Giacometta Battisti
Input: Proverbio - Una volta qui c’erano solo campi.

giovedì 22 marzo 2007

Libertà sotto la magnolia

“Non può andare avanti così le cose devono per forza prendere una direzione...non ho più voglia…sono stanco”disse tra sé e sé Francesco mentre correva veloce con la sua bicicletta ormai consumata dal tempo. Correva veloce lungo il viale alberato che costeggia il fiume. Veloce nei suoi pensieri in fuga dal suo presente. In prossimità dello spazio verde al di la della strada principale diminuì la sua corsa fino a che non si fermò. Era troppo ansioso per ricordarsi che sarebbe stato meglio legare la bici ad un qualsiasi palo al delimitare dello spazio, ma ormai la sua mente correva troppo veloce. Arrivò giusto alla grande magnolia, posò la zaino e vi prese la sua contact : la sua palla. “Per lo meno mi sei rimasta te” e così dicendo la prese tra le sue mani e cominciò ad esercitarsi nei suoi movimenti fantastici. La piccola ma pesante palla roteava tra le sue mani formando forme e spazi, racchiudendo i suoi segreti messaggi in movimenti esperti e rappresentativi. Lui e la sua palla, inseparabili compagni di viaggio in un mondo pieno di odio. Glielo leggevi in faccia, quella faccia pallida con occhiaie costanti che racchiudevano notti insonni nella paura piuttosto che bisbocce amichevoli. La paura, era quella che vedevi negli occhi di Francesco, una paura profonda che veniva mimata dalla sua gestualità espressiva. Quel giorno però Francesco non riusciva a concentrarsi ed era ormai un paio di volte che la palla gli cadeva per terra nel bel mezzo di un salto verso l’alto. “Sono stanco, non riesco neanche ad allentare la tensione. Ma come si fa a rilassarsi in questa situazione. Ho bisogno di un letto per dormire.” Si sedette sotto il suo albero e perso nei suoi pensieri si addormentò esausto rannicchiato sul suo zaino. Francesco era stanco; aveva bisogno di potersi sentire al sicuro almeno per qualche momento; senza sentirsi in pericolo casomai si fosse addormentato. Cullato da quel pomeriggio caldo riapri gli occhi per sentirsi vivo.”Bè…magari potrei fare un giretto verso piazza giusto per vedere se rimedio una canna così magari spengo questa ansia”. Si alzò, alzò le braccia verso l’alto per stiracchiare i muscoli indolenziti e mettendosi nuovamente lo zaino in spalla si incamminò verso la bici che fortunatamente era sempre al suo posto; anche perché solo uno sventurato avrebbe mai pensato di rubare una bici così malmessa. Tornò da dove era venuto, ripercorse il viale alberato in senso opposto cercando di impegnare la sua mente nelle pedalate piuttosto che su quello da cui stava pedalando contro. “Magari se riesco a tornare veramente tardi cela posso fare” Pensava. Arrivò in piazza dove già molta gente stava facendo aperitivo. Anche se avesse voluto Francesco non si sarebbe potuto permettere di spendere neanche 2 euro per una birra al piccolo negozio di caffè retrostante la piazza principale. Si guardò intorno giusto per vedere se riconosceva qualcuna delle solite facce. “Ah, c’è Annina con Milo” . “Ciao” disse Francesco ad Anna che stava bevendo la sua birra media con Milo seduto come al solito ai suoi piedi come se dovesse sorvegliare la sua padrona costantemente.
“Ciao Fra! Allora che giri? Com’è?”
“Sono uscito subito dopo pranzo…sai non avevo molta voglia di rimanere in casa e così mi sono fatto un pisolino sotto la magnolia ”
“Non è migliorata granché la situazione, vero?”
“In effetti no . Senti ma due canne si riesce a rimediarle?” chiese Francesco che non aveva troppa voglia di entrare nei dettagli delle sue ultime fughe da casa. “Io qualcosa c’ho. Tieni.”.”Grazie Anna, finalmente una cosa buona in questa giornata di merda !”. Prese il tutto e salutando Anna se ne andò. Non era sicuro di voler ritornare a casa subito così si fermò su una panchina e si rollò una canna. “ Ok , Francesco deve rimanere calmo. E’ inutile che tu ti agitati già da ora. Non puoi nuovamente dormire per strada…devi tornare a casa” E cercando di convincersi a non aver paura aspirava pienamente quel fumo che lo rilassava e lo assentava da se stesso. Ormai nel suo mondo di Alice, Francesco prese nuovamente la sua pallina in mano e cercò di muoversi al suono della sua musica interna. Soavi movimenti prendevano forma dal quel connubio di corpo e palla. Proprio in quel momento una figura indistinta si stava avvicinando nella notte e quando fu più vicina a lui prese vita dicendo:” France !” Francesco tornò al mondo improvvisamente e la sua palla cadde tra i cespugli dietro la panchina.
“ Chiarina!Mi hai spaventato!”.
“Scusa! Che stavi facendo?Sempre quella tua palla!”
“Niente, stavo solo aspettando prima di rientrare a casa. Hai mica un accendino che il mio è scarico? Sai devo ritrovare la palla che mi hai fatto perdere nel cespuglio!” Chiara gli porse il suo accendino e Francesco illuminò dietro di sé alla ricerca della sua palla. Frugando tra l’erba con la minima luce dell’accendino riuscì a vederla ma riuscì anche a scorgere un pietra da una forma strana che le stava accanto.”Eccola…e questo cos’è?”
“Ehi chiara guarda un po’ che cosa ho trovato?”
“Che cos’è? Sembra ci sia una conchiglia disegnata sopra!”
Francesco osservò quella pietra da vicino, la girava e la toccava con quelle sue mani livide e sporche. “ Che cosa ci fa qui una conchiglia fossile?!”
“Che carino!Hai intenzione di tenertelo?”
“Penso che la aggiungerò alla mia collezione di sassi.” In effetti l’unica cosa che Francesco poteva ritenere veramente sua, oltre chiaramente alla sua palla, erano i suoi sassi, unica proprietà che riusciva a tenere a casa senza correre il rischio di vederla rotta contro una parete in uno dei costanti impeti di rabbia ai quali era costretto ad assistere. Prese il suo nuovo sasso e se lo mise nello zaino. Aspirò l’ultimo tiro della sua canna e volgendosi verso Chiara che si era seduta con le gambe strette al petto sulla panchina disse: “Mandiamo l’ultima canna e poi me ne vado a casa”
“Ok…la sigaretta ce l’ho io…non importa.” Francesco si sedette accanto alla sua vecchia amica di infanzia, quella amica che lo aveva sempre consolato nei momenti peggiori, quella amica che lo aveva ospitato a lungo quando le cose si facevano veramente brutte, quella amica che lo aveva sempre fatto sentire al sicuro.
“Sono stanco Chiara”.
“Lo so France ma purtroppo sei l’unico che può decidere che cosa è meglio fare in questa situazione. Come stanno le cose lo sai e sai anche che ormai è tardi per cambiare. Devi sbrigarti a decidere o ti perdi”. Francesco lo sapeva che avrebbe dovuto decidere e sapeva anche che cosa avrebbe dovuto fare per cercare di salvarsi il futuro ma aveva paura. Sospirò e non aggiunse altro.
L’ultima canna finì e Francesco dopo aver abbracciato stretta al petto la sua amica, salì in bici e se ne andò pedalando lentamente. Più si avvicinava a casa e più quell’inquietudine che gli viveva dentro cominciava a farsi sentire. Un paio di palazzi prima del suo si fermò, scese dalla bici e la legò alla ringhiera. Zaino in spalla e lenti passi. Tanto più l’ansia e la paura gli crescevano dentro tanto meno riusciva a pensare a parole incoraggianti.
“Eccoci arrivati” disse aprendo lo zaino per cercare le chiavi di casa. Frugando distrattamente si accorse della conchiglia fossile che aveva trovato. “Già. Ti aveva proprio dimenticato” E per un attimo sembrò quasi scordarsi di dove era. Prese in mano la conchiglia e le chiavi. Aprì il portone d’ingresso e si diresse verso la prima porta di quel fatiscente condominio stile anni ’50. Prima di inserire la chiave nella toppa posò l’orecchio sulla porta giusto per assicurarsi che tutto fosse calmo. “Ok…entro e vado immediatamente in camera”. Mise la chiave nella toppa della porta e facendo un respiro profondo girò la chiave.
Aprì lentamente la porta per evitare che cigolasse e la richiuse dietro di sé.
La televisione del salotto era accesa. Francesco si affacciò lentamente per vedere se il suo patrigno si era addormentato come al solito ubriaco sulla poltrona ma non c’era nessuno. Si diresse verso camera sua quando, passando davanti alla stanza di sua madre, sentì il russare frenetico di quel bastardo che gli stava rendendo la vita impossibile. “Figlio di puttana” pensò mentre si richiudeva alle spalle la porta di camera sua. Buttò lo zaino sul letto e posò la conchiglia sul comodino lasciandosi andare all’indietro sul letto. “ Devo andarmene” e si lasciò andare alla stanchezza senza neanche spogliarsi o mettersi sotto le coperte. Quando riaprì gli occhi il patrigno era seduto in mutande davanti a lui. “ E questo che cazzo è?” disse con in mano la conchiglia. Non fece neppure in tempo a rispondere che arrivò il primo colpo. “ La devi finire di portarti a casa queste stronzate”. Ormai era inutile fare qualsiasi cosa. Il secondo colpo arrivò dritto nello stomaco e quelli dopo dovunque. Francesco non pensava più a niente, il dolore gli aveva anestetizzato qualsiasi realtà e durante quei quindici minuti di delirio viveva solo nella sua.
“ Non sai neanche difenderti!Mi fai schifo!” e gli sputò dritto in faccia prima di andarsene sbattendo così forte la porta da farla rimanere aperta. Francesco rimase immobile come era nel suo letto. Si asciugò il viso e sapendo che il peggio era passato si alzò e chiuse a chiave la porta della sua camera. “ Adesso basta, basta, lo stronzo se ne va” tirò su il naso sanguinante e racimolò le poche cose che aveva mettendole nello zaino. Si guardò intorno per vedere di non dimenticarsi niente e qualcosa vide sotto il letto che aveva dimenticato.
“E questa viene via con me!” prese la conchiglia e se la mise in tasca. Aprì la finestra e saltò giù. Fortunatamente stava al primo piano.
La lieve brezza notturna gli anestetizzava i colpi e ancor più gli accarezzava la faccia andando in bici. Si sentiva libero. Libero perché aveva deciso, libero perché non aveva più paura. Libero perché poteva scegliere il suo futuro. Pedalava Francesco, pedalava verso casa di Chiara, pedalava pensando che finalmente avrebbe potuto dormire quel sonno da tanto aspettava.

Caterina Di Prete
Input: Personaggio e conchiglia fossile

Profumi d'infanzia

Il profumo dei tigli che riempiva l’aria del viale rimaneva nelle menti dei passanti come un dolce ricordo perduto ma vivo nella memoria. Era ormai l’imbrunire e la piccola Franca scalza e poco vestita se ne tornava a casa per la cena. Aveva trascorso il pomeriggio a vedere i treni passare accanto alla ferrovia, quei pochi treni che avevano ripreso le loro corse dopo gli ultimi bombardamenti. Saltellando spensierata per i prati che la dividevano dalla sua piccola ma calda abitazione Franca cominciava a sentire i primi morsi della fame, ma come ormai la guerra li aveva abitati sarebbe potuta andare avanti per giorni. Le vite di lei, della sua famiglia e della corte nella quale viveva erano state sconvolte dalle atrocità della guerra; quelle atrocità che li portavano nel cuore della notte a scappare nei campi al suono della sirena che avvisava dei bombardamenti imminenti, quelli orrori che portavano via gli uomini dalle famiglie e lasciavano vuote le loro pance.
Prima di rincasare Franca andava a prendere l’acqua alle fonti in fondo alla corte nella quale viveva; secchio alla mano e un gran forza per muovere il mulinello che le avrebbe riempito il suo contenitore giusto quanto basta per la fine della giornata. Come tutte le sere il suo fratellino minore l’aspettava già alla fonte per aiutarla a portare il secchio ma anche perché non riusciva a starle distante. Avevano appena riempito il loro carico quando un suono inquietante li distrasse dalle loro risate: era la sirena che avvisava di un pericolo aereo. Ancora prima che i due potessero correre a casa per nascondersi nel seminterrato una prima bomba tocco il suolo proprio al di là della corte, al di là dei tigli. Era troppo pericoloso correre a casa e la soluzione più immediata erano i campi di grano al di là della ferrovia . Senza neanche pensare Franca prese il fratellino in braccio e corse a piedi nudi più veloce che poteva, corse verso i campi e continuò a correre superando le rotaie fino a che i lunghi steli di grano li coprirono completamente. Nel silenzio della notte ancora due bombe caddero ma Franca ed il piccolo Giovanni erano salvi. Quando ormai la notte era calata ed il cielo era tornato sereno senza più le luci abbaglianti delle esplosioni, i due tornarono a casa. Non si dissero niente, non c’era niente da dire; altri avevano seguito il loro esempio e dai campi altre figure procedevano verso le case. La madre Odosca si era precipitata fuori non appena aveva potuto, pur consapevole di aver addestrato nel migliore dei modi i figli a nascondersi in questi casi ma quando li vidi da lontano non poté fare a meno di corrergli incontro e stringerli al petto così forte da farli quasi mancare il respiro. Odosca prese il piccolo Giovanni in braccio ed i tre si incamminarono verso le altre case della corte per assicurarsi che anche gli altri stessero bene; Giovanna, Enrichetta, Fausto, Rodomonte e gli altri stavano fortunatamente tutti bene. Adesso si poteva rincasare impauriti ma felici di avere superato anche questa.
Per un attimo Franca era stata invasa da tutti i ricordi della sua infanzia ma la vocina della piccola nipote la riportò al presente.”Nonna, nonna lo senti anche te questo dolce profumo?” “Sì tesoro lo sento anch’io, è l’odore dei tigli. Ma adesso dobbiamo rincasare è quasi sera.” E così dicendo Franca prese la mano della nipote e le due si incamminarono verso casa passando da dove un tempo c’erano solo campi di grano e dove riposavano le vite di un tempo che fu.

Caterina Di Prete
Input: Proverbio - Una volta qui c'erano solo campi

domenica 18 marzo 2007

Sangue e latte

L’aveva notata non appena era entrata in sala. Indossava un vestito nero che le arrivava molto sopra il ginocchio e faticava a contenerle i seni. Aveva i capelli e le labbra tinte di rosso, le ciglia appesantite dal mascara e la pelle bianca come porcellana.
Gli si era avvicinata, rumorosa nei tacchi a spillo, e si era seduta vicino a lui, nonostante la sala fosse semivuota. Gli si rivolse con il tono di chi si è alzato già stanco.
‹‹Scusa, hai una sigaretta?››
‹‹Non fumo›› rispose lui.
Si stupì della freddezza del suo tono, quasi un’allusione ad un timore nascosto. Lei non si alzò.
Vittorio tentò di concentrarsi sull’ultima rocambolesca impresa di Rossi, ma pochi istanti dopo, quasi inevitabilmente, il suo sguardo prese a vagare nei pressi delle ginocchia della ragazza. Da quelle risalì la curvatura morbida delle gambe accavallate, incontrò il tessuto del vestito, poi il ventre piatto, poi la prominenza di grossezza imbarazzante del seno…
A quel punto lei si alzò e si diresse con passo svelto verso l’uscita della sala d’attesa dell’ospedale. Non si era accorta del suo sguardo, sembrava più essersi appena ricordata qualcosa.
Vittorio tuffò di nuovo il naso nel giornale, irritato e carico di vergogna.
Poi hanno il coraggio di lamentarsi se il primo idiota che passa le trascina in un vicolo e le brutalizza!
Si pentì all’istante di quel pensiero. Fortunatamente l’infermiera lo chiamò poco dopo, e lui entrò di buon grado nello studio del dottore.
Quando uscì dall’ospedale non pensava già più alla ragazza di poco prima. Adesso aveva la mente occupata da altri pensieri: doveva decidere se e quando togliersi due nei a rischio, passare a fare la spesa, pranzare con Susanna e tornare a lavoro prima delle due del pomeriggio.
Lui e Susanna stavano insieme dai tempi dell’università. Gli sembrava che lei ci fosse sempre stata; la sua presenza era scontata e fondamentale come l’aria. Non gl’interessavano le altre donne, né i suggerimenti irriverenti di certi amici, secondo i quali la vita a quarant’anni era bell’e che andata. E lui di anni ne aveva già trentaquattro.
Ogni tanto un lieve mormorio che affiorava dal profondo, forse uno strascico dell’ entusiasmo che aveva accompagnato i suoi vent’anni, gli suggeriva che poteva avere di meglio, che c’era più di così, che forse si era assoggettato al sistema e non faceva altro che dire di sì in favore di un’ipotetica causa maggiore.
E quel giorno, nel supermercato stracolmo, in ottava posizione in fila alla cassa e con un cestino rosso al cui interno figurava anche un pacco di assorbenti (Susanna aveva dimenticato di comprarli il giorno prima), questo lieve mormorio rischiava di diventare un lamento esasperato.
Finalmente fuori, con una mano che teneva la busta della spesa e l’altra impegnata a rovistare nella tasca alla ricerca delle chiavi della macchina, calcolò mentalmente che gli rimanevano all’incirca un’ora e cinquanta minuti prima di tornare al lavoro.
Si precipitò a casa, posò la busta della spesa, si cambiò d’abito e ripartì per raggiungere Susanna al bar dove lavorava.
Un bacio frettoloso, un panino, una birra, il resoconto di quello che gli aveva detto il dottore e poi di nuovo in macchina.
Rimase nel negozio dove vendeva hardware come commesso fino all’ora di cena. Poi finalmente a casa.
Dopo cena arrivò Susanna. Aveva portato un film del videonoleggio, forse per compensare il fatto che, per la stessa ragione per cui lui quel giorno aveva dovuto fare una spesa imbarazzante, quella sera non avrebbero fatto l’amore.
Vittorio si addormentò prima della fine del film, come di consueto. Venne svegliato da lei intorno a mezzanotte.
‹‹Tesoro, io vado a casa. Vai a letto, che domani ti devi alzare presto››
Lui annuì, aspettò di sentire il rumore della porta che si chiudeva e poi si riaddormentò.
Il mattino dopo si alzò con la stessa, muta rassegnazione ad un giorno identico ai precedenti, che caratterizzava i suoi risvegli ormai da diversi anni.
Dopo la mattinata passata al lavoro, raggiunse Susanna al bar e pranzò con lei.
Fu mentre stavano decidendo se lui si sarebbe tolto i nei a rischio la settimana successiva o quella dopo ancora, che la rivide.
Entrò nel bar con indosso un abito ancora più esiguo di quello del giorno prima e le labbra color rubino, su cui d’istinto si fissarono gli occhi di Vittorio.
Anche Susanna si girò a guardare la ragazza appena entrata, e commentò: ‹‹Oddio, quella!››
Vittorio si riebbe all’istante, senza però lasciarsi sfuggire l’ordinazione che la giovane fece al collega di Susanna dietro al bancone.
‹‹La conosci?››
‹‹Di fama. Da un po’ si tempo pranza qui un paio di volte alla settimana. Dicono che sia una che… ci dà dentro››
Vittorio guardò la fidanzata, accentuando fin troppo l’incredulità. ‹‹Ma dai. Come lo sai? Avrà ventidue, ventitrè anni…››
‹‹Diciannove! Diciannove anni. Qui al bar capitano un sacco di clienti che ci hanno avuto a che fare… molto da vicino. E ti giuro che raccontano delle cose da brivido su di lei››
‹‹Oh. Mio Dio, che cose››
‹‹Già. Che cose!››
Vittorio terminò il suo panino senza sentirne il sapore e tornò al lavoro.
Da quel giorno cominciò ad andare al bar di Susanna prima possibile e a lasciarlo più tardi che poteva. Per godersi almeno un po’ la pausa pranzo, si diceva.
Rivide la stessa ragazza altre volte, e, sebbene lei frequentasse il bar in maniera poco regolare, lui sviluppò una specie di sesto senso che gli faceva presagire, fin dal mattino, che quel giorno l’avrebbe vista.
Ogni volta che la ragazza pranzava al bar, Susanna ridacchiava e diceva che avrebbe lavato i bicchieri da cui beveva con il disinfettante.
Vittorio dava ragione alla fidanzata. E tuttavia dovette presto rendersi conto che le sue giornate, da quando le viveva con il pensiero di poter incontrare la sconosciuta dai capelli rossi, erano diventate più interessanti.
Conosceva i suoi piatti preferiti, il suo guardaroba, le sue pettinature consuete. Notava anche i modi in cui i clienti la guardavano, il disgusto che si dipingeva sul volto di alcuni e la brama che si accendeva su quello di altri.
Un giorno si decise a seguirla. La curiosità di sapere chi realmente fosse e che lavoro facesse lo divorava.
Appena la vide uscire dal bar, salutò in fretta Susanna con la scusa di aver dimenticato qualcosa a casa e le andò dietro.
La ragazza percorse a piedi un paio di strade ed entrò in un negozio di abbigliamento alternativo. Vittorio ne fu un po’ deluso. Tornò a lavoro, ma per tutto il pomeriggio fu così distratto che il suo collega, che non l’aveva mai visto così, gli chiese se per caso non avesse la febbre. E lui decise che l’aveva.
Disse di sentirsi poco bene e che il giorno dopo sarebbe rimasto a casa. L’avrebbe detto anche Susanna.
Ciò che lo sorprese fu la completa mancanza di senso di colpa quando al telefono disse alla fidanzata che era a letto con il mal di gola. Lei gli consigliò la marca di un prodotto e un buon riposo. Susanna era così dolce.
Si sentì comunque un po’ stupido quando, il pomeriggio successivo, si ritrovò a gironzolare nei pressi del negozio della rossa misteriosa, con un cappello e un paio d’occhiali per non farsi riconoscere.
Alle sei la vide uscire dal negozio e la seguì senza indugiare. Non si chiedeva perché d’improvviso gli fosse venuta una tale ossessione per una perfetta sconosciuta, tra l’altro il genere di ragazza con cui lui si era sempre guardato bene dall’avere a che fare.
Lei si fermò all’entrata di un vecchio condominio, poco lontano da dove lavorava. La vide esitare davanti all’entrata; cercò qualcosa nella borsa, immobile davanti alla rampa di scale, poi si voltò e i loro sguardi si incrociarono da una distanza di dieci metri.
‹‹Hai finito di seguirmi?›› gli chiese.
Il cuore di Vittorio fece un balzo. Comprese di essersi lasciato trasportare a tal punto dall’impeto da risultare maldestro. Ma ormai c’era troppo dentro, non poteva tirarsi indietro. Non l’avrebbe mandata giù.
‹‹Ecco, io…››
Lei gli fece cenno di avvicinarsi. Vittorio sentì che non desiderava altro. La prima volta che l’aveva vista, in ospedale, gli era sembrata volgare. Adesso che poteva vederla senza troppa gente intorno, invece, si accorgeva che era davvero graziosa.
‹‹Cosa vuoi?›› gli chiese.
Vittorio si accorse di non sapere assolutamente cosa rispondere. L’unica cosa che voleva da quella ragazza non avrebbe potuto ammetterla con chiarezza neanche a se stesso.
Per fortuna lei decise di tagliare corto e gli risparmiò di dover dare spiegazioni.
‹‹Sei qui per quello?››
Vittorio rimase immobile, e lei lo interpretò come un assenso.
‹‹Chi te l’ha detto?››
‹‹Nessuno…›› sapeva che non poteva reggere, nonostante fosse la verità.
‹‹Sì, certo. Non importa, tanto lo scoprirò da sola. Sali adesso o torni più tardi?››
Vittorio si chiese come fosse possibile una simile disillusione in una ragazza di diciannove anni. Lo pervase un misto di pietà, ammirazione e tenerezza.
L’ebbrezza prese il sopravvento, e gli restituì parte della sua eloquenza.
‹‹Adesso›› si decise.
‹‹Va bene››
La seguì su per le scale. Lei si fermò al terzo piano ed aprì un portone verde decrepito. Lui le andò dietro, docile. Non capiva come faceva a non preoccuparsi di nulla in quel modo.
La casa era minuscola e sporca, ma la stanza da letto era in ordine immacolato. Chissà quanti altri l’avevano già notato.
‹‹Ti spiace se prima fumo una sigaretta?›› disse lei. Aveva lo stesso tono stanco che le aveva sentito la prima volta.
‹‹No, figurati››
Non sentì il bisogno di dirle altro mentre lei fumava sul davanzale della finestra, con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte. Aspettò senza agitazione.
Quando ebbe finito, la ragazza spense la sigaretta e poi gli si avvicinò. Si sfilò il vestito senza fiatare, con fare meccanico, guidata dall’abitudine. Sotto era praticamente nuda.
Nonostante il modo di fare completamente privo di sentimenti, la grazia indicibile del corpo diciannovenne bastò a far perdere la testa a Vittorio.
Il candore della pelle nuda delle spalle, accarezzate dalle ciocche rosse, generava un contrasto inebriante, come sangue sul latte. Tentò di baciarla, ma lei non gliene diede il tempo e cominciò a togliergli i vestiti. A quel punto lui si perse completamente e le lasciò fare il resto.

Non credeva che gli avrebbe dato tanta soddisfazione. Non si sentiva degradato, anzi. Era come se si fosse preso una rivincita, non avrebbe saputo dire su cosa.
Le diede anche qualche soldo in più di quanto gli aveva chiesto, e la salutò con affetto, perché in fondo provava un’enorme simpatia per lei e per il suo disincanto.
Quando il portone verde si chiuse alle sue spalle, si soffermò a leggere il nome scritto sul campanello. Scoprì che si chiamava Anna.
Camminando per strada pensò che forse poteva ripetere l’esperienza. Anna non giudicava, Anna manteneva il segreto. Anna era un abbraccio in cui rifugiarsi e annullarsi.
Come sarebbe stato bello potersi congiungere con chiunque gli fosse piaciuta, con chiunque lui fosse piaciuto! La gioia che provava gli dava l’impressione che, in qualche modo, originariamente la natura avesse destinato l’essere umano a questo, alla totale libertà sessuale, a una sorta di equilibrio tanto dolce quanto inammissibile.
Ma no, non poteva. Non voleva essere giudicato un mascalzone. Lasciarsi andare significava trasgredire le regole e rovinare tutto.
Doveva stringere i denti, continuare a vivere le sue giornate una uguale all’altra e a stare con Susanna, magari cominciare a pensare di sposarla.
Quella sera avrebbe guardato di nuovo un film con lei, e il giorno dopo sarebbe tornato al lavoro.
Anna sarebbe rimasta una trasgressione isolata, una breve fuga dalla realtà.
Sapeva già che in seguito avrebbe compiuto molte altre follie occasionali, ma avrebbe fatto in modo che queste non gli prendessero la mano, non gli sconvolgessero la vita. Forse così sarebbe riuscito a vivere sacrificando il più per una causa maggiore che non vedeva.
Forse era l’unico modo.

Linda De Santi
Input: il conflitto.

sabato 17 marzo 2007

L’arte di vendere il miele

Jacques era un pezzente con la passione per il disegno.
Viveva in una città splendida, piena di monumenti e di posti buoni per dormire. Frequentava angoli sporchi, piazze affollate e stazioni dei treni, portandosi sempre appresso tutti i suoi averi, che certamente non lo appesantivano: giusto i vestiti che aveva addosso, e uno zaino logoro con dentro una coperta, l’elemosina dei misericordiosi e il suo album da disegno. La prima gli serviva di notte, la seconda per fare colazione e qualche follia, il terzo per vivere.
Ogni mattina si svegliava, salutava il cantuccio che l’aveva ospitato (quasi sempre un angolo della stazione, ma talvolta anche il cassonetto d’un vicolo di periferia, uno di quelli dove non ci si sorprenderebbe di trovare un cadavere fatto a pezzi) e si dirigeva verso il bar della sua migliore amica, Zelda.
Zelda era panciuta, dispotica e permalosa, ma lo adorava. Jacques la conosceva da parecchio tempo, ma erano diventati davvero amici soltanto l’anno prima, quando, rovistando tra i rifiuti, lui aveva scovato un magnifico cucciolo marrone e gliel’aveva regalato.
Visto che Zelda non era sposata né aveva figli, il cucciolo era venuto su circondato da cure d’ogni sorta. Era grasso come la padrona, ma come lei tutt’altro che pigro. Tutte le mattine aspettava Jacques davanti all’entrata del bar e si agitava come un innamorato quando lo vedeva arrivare. Jacques gli concedeva una carezza alla base delle orecchie, gli prometteva gli avanzi della migliore rosticceria del centro e poi entrava a fare colazione.
Più volte aveva sentito i clienti chiedere a Zelda chi fosse l’artefice dei disegni con cui lei aveva tappezzato le pareti del bar. Lo domandavano in tono d’ammirazione sincera, rapiti da quella sorta di caricature di persone, monumenti famosi e oggetti. Ma quando ce l’avevano vicino, questo artefice, prendevano imbarazzati le distanze, trangugiavano in fretta il caffè e uscivano dal bar.
‹‹E’ perché puzzi come un caprone›› lo rimproverava lei quando era di malumore, ‹‹mi spaventi i clienti. Finirò sul lastrico per colpa tua››
Jacques beveva il cappuccino seduto al tavolo come un impiegato, mangiava un cornetto alla crema, contava gli spiccioli sul palmo della mano, discuteva con Zelda che ogni volta non voleva essere pagata e poi ripartiva.
Attraversava il fiume, camminava di fianco alla strada dei licei, svoltava un paio di volte e arrivava in Piazza del Teatro. Salutava Aldo, che faceva i ritratti a carboncino ai turisti, e poi si accomodava sul primo gradino della scalinata che conduceva all’enorme entrata del teatro.
Tirava fuori il suo album da disegno, faceva la punta alle matite e cominciava a disegnare. Non capitava quasi mai che facesse il ritratto alle persone, come Aldo. Di solito schizzava in fretta i passanti di cui s’invaghiva la sua attenzione, senza che questi sospettassero nulla, e poi ci lavorava su con calma.
Aveva un modo tutto suo di filtrare la realtà. Se il suo soggetto era un pensionato sovrappeso, magari umido di sudore sotto il sole cocente delle piazze, ecco che la sua mano tracciava uno scoglio bagnato dalle onde, con fattezze vagamente antropomorfe; dotato di occhi, naso e bocca, con una camicia a fiorami, un copricapo da turista, una stella marina attaccata alla guancia e un polipo sulla spalla.
Se invece s’interessava a un’adolescente in gita scolastica, con i capelli a caschetto e l’apparecchio ai denti, le sue linee s’intrecciavano a formare un corpo di ragazzina sovrastato da una testa di cavallo con il morso.
Ovviamente poteva essere anche più beffardo. Un ragazzo con il mento particolarmente pronunciato era diventato un corpo d’uomo sotto un enorme gabinetto con occhi e naso. E una vecchia rinsecchita con il naso acquilino si era trasformata in un bastone da passeggio con il pomo a forma d’uccello.
Quando finiva un disegno, lo depositava ai propri piedi. Ne faceva circa venti per mattinata. Qualche volta capitava che un passante decidesse di acquistarne uno, ma Jacques guadagnava molto di più con lo sfoggio dei vestiti logori e delle scarpe rotte.
Intorno all’ora di pranzo raccoglieva i suoi disegni e il berretto con gli spiccioli, e andava a rovistare in qualche bidone. Pranzava e tornava al suo posto. Riprendeva a disegnare. E così fino a sera, senza stancarsi un attimo; avido dei lineamenti, delle fattezze, delle espressioni, dei cipigli dei passanti fugaci.
Alle sette e mezza Aldo riponeva i suoi strumenti, lo salutava e se ne andava. Poco dopo le otto se ne andava anche lui. Nei mesi freddi andava a trovare Zelda, mentre con il caldo passeggiava per la città, o andava a sbronzarsi, o cantava sul lungofiume.
Di notte era ancora più facile lasciarsi trasportare dalla fantasia. Con il buio, come si poteva affermare con certezza che dietro l’angolo che si stava per svoltare non ci fosse un vichingo con la mazza alzata, pronto a tramortirti? E come si poteva sapere se le luci riflesse nelle acque del fiume erano quelle dei lampioni sulle sponde o quelle delle finestre accese di una città subacquea, lontana e bizzarra?
Jacques non era certo di niente, se non di essere vivo e di dover cercare di restarlo il più a lungo possibile. Non sapeva dire se i miracoli accadono davvero o sono le allucinazioni generate dalla manchevolezza insita nella fede, né se le persone rimangono per sempre uguali a come sono o possono cambiare in poco tempo, come per magia.
Certo, sarebbe stato buffo alzarsi il giorno dopo e scoprire che Zelda si era trasformata in una bellissima principessa e il suo cane in un cavallo bianco. Ancora più buffo sarebbe stato che lui fosse entrato nel bar e tutti si fossero inchinati al suo cospetto. E non sarebbe stato affatto male, nossignore, se le persone avessero potuto assumere l’aspetto che lui conferiva loro nei suoi disegni. Ne sarebbe risultato un mondo pieno di creature strane e curiose, che gli uomini avrebbero guardato con ammirazione e rispetto perché toccate dalla sua magia, che le avrebbe rese più vicine al mondo dei sogni.
Una sera di primavera accadde che, in vena di follie, Jacques scommise gli spiccioli di tutta la settimana in una partita a carte che poi perse, e si ritrovò senza un centesimo. Troppo orgoglioso per fare colazione da Zelda senza pagare, il mattino dopo non si presentò al bar. Non aveva mai avuto grandi esigenze in fatto di cibo, ma l’assenza di un pasto poteva metterlo in ginocchio.
Infatti, già a metà mattina cominciò a non distinguere bene i lineamenti di un giapponese che sembrava un criceto con una macchina fotografica al collo, e fu costretto a smettere di disegnare.
Rovistò nei bidoni del centro, senza trovare niente. Gli era successo soltanto poche altre volte in vita sua. Provò ad andare all’uscita della mensa dei licei, dove a volte gli studenti lasciavano i panini avanzati per quelli come lui. Ma non trovò nulla nemmeno lì.
Fece qualche altro tentativo, poi, affaticato e di malumore, si lasciò cadere su una panchina e vi rimase, con il collo piegato, la faccia rivolta verso il cielo e gli occhi chiusi.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo rimase in quella posizione. Quando riaprì gli occhi, era già quasi l’imbrunire e lui gli stava davanti.
Se non l’avesse fissato con tutta quell’intensità, Jacques l’avrebbe notato a malapena. Non lo si poteva descrivere in altro modo se non come un uomo qualunque, con lineamenti regolari e piuttosto scontati, i caratteri dominanti e un lungo cappotto nero. Una persona di quelle che gli occhi di Jacques, allenati a cogliere l’insolito e l’irregolare, non avrebbero neppure notato.
Colpito dal fatto che qualcuno tenesse gli occhi su di lui con tanta insistenza (gli era capitato di essere fissato con pietà, ma mai con insistenza), rimase dov’era. Ma era infastidito dal digiuno, e si spazientì in fretta.
‹‹Buon Dio, cos’ha da guardare?›› chiese Jacques.
Lo sconosciuto sorrise e gli si avvicinò. Jacques realizzò la possibilità che fosse un agente in borghese e si allarmò. Quando succedeva qualcosa e c’era da dare la colpa a qualcuno, venivano sempre a cercare loro, i pezzenti.
‹‹Sono qui da ieri sera›› ci tenne a premettere.
‹‹Le assicuro che non m’interessa dov’è stato oggi›› rispose l’uomo.
Jacques lo guardò negli occhi e avvertì una certa fretta di andarsene. Aveva fame, doveva trovare un angolo nascosto in cui svuotare la vescica e cominciava a sentirsi a disagio.
‹‹Sono il Venditore di Miele›› si presentò lo sconosciuto.
‹‹Non voglio niente›› si affrettò a rispondere Jacques. Di sicuro era il nome in codice di uno spacciatore. Stavano senz’altro cercando d’incastrarlo.
‹‹Lei crede?›› disse l’uomo. ‹‹Almeno ascolti cos’ho da proporle››
Jacques scosse la testa, fattasi pesante. Per sottolineare il suo rifiuto, agitò anche una mano. Si alzò e fece per andarsene, ma lo sguardo dell’uomo lo bloccò di nuovo.
‹‹Quante volte le è capitato che qualcuno le offrisse qualcosa senza che lei chiedesse?›› disse il Venditore di Miele. ‹‹Se va via non saprà mai a che cosa sta rinunciando. E non sono qui per farle passare dei guai, se è questo che sta pensando. Suvvia, rimanga››
Jacques rimase immobile. Qualcosa gli impediva di andarsene. Forse la debolezza per la troppa fame.
‹‹In realtà dovrebbe essere felice di vedermi›› cominciò l’uomo. ‹‹Perché le porto un dono incredibile››
Jacques sperò che fosse del cibo.
‹‹Lei è un uomo fortunato›› proseguì il Venditore di Miele, ‹‹le offro il potere di possedere le persone che disegna. Di farne le sue creature, ecco. E di conseguenza, di ottenere tutto ciò che desidera da loro››
Stranamente Jacques non pensò che lo sconosciuto stesse farneticando, ma la verità di queste parole gli si presentò limpida come se la cosa fosse del tutto normale e realizzabile.
‹‹Pensi!›› s’infervorò il Venditore di Miele, ‹‹possiederà la realtà soltanto copiandola. I suoi disegni faranno degli uomini le sue marionette. Marionette che potrà far combattere tra loro per il suo divertimento, o che potrà spingere all’amore e alla devozione più folli per la sua persona. Tutti saranno con lei com’è il cane della sua amica, e anche di più. Pensi. Chiunque riceverà il dono del suo sguardo, chiunque stimolerà la sua attenzione, cadrà ai suoi piedi, se lei lo desidera››
Jacques trasecolò. Non sapeva se a fargli girare la testa erano i morsi allo stomaco o quella situazione.
Il Venditore di Miele si schiarì la voce e proseguì: ‹‹Nei suoi disegni verranno intrappolate le anime stesse delle persone, i loro pensieri, i loro sentimenti. E lei potrà disporne come vuole. Non è un dono magnifico? Non ha fame, adesso? Non desidera disegnare un fornaio, un rosticcere, uno chef?››
Jacques deglutì. Accidenti, se aveva fame. L’uomo lo fissava dritto negli occhi, ormai a pochi centimetri dal suo volto. Comprese di dover rispondere qualcosa.
‹‹E perché mi starebbe facendo un’offerta simile? Voglio dire, perché proprio a me?››
Il Venditore di Miele sbuffò divertito. ‹‹Cielo. Da che mondo è mondo, esiste una legge per cui alcuni sono più meritevoli di altri di ricevere un simile dono? No, non esiste. Il potere si distribuisce a casaccio fra gli uomini, senza criterio, equilibrio o giustizia. Alcuni sono baciati dalla fortuna e altri no, così come alcuni sono baciati dall’Arte e altri non lo sono. Mi hanno indicato lei, ma avrebbero potuto indicarmi la sua amica Zelda, il suo collega Aldo, il professore che ha disegnato l’altro ieri, chiunque. Esistono persone molto più meritevoli di lei, come esistono persone meno meritevoli. Ma questo non ha importanza››
Jacques dondolò la testa. Ora gli sembrava di stare per svenire. Tentò di muovere un passo, ma barcollò e sbilanciò in avanti. La mano del Venditore di Miele afferrò in fretta la sua spalla destra e lo sostenne.
‹‹Si sente bene?›› gli chiese.
Il volto di Jacques era a un centimetro dal secondo bottone del cappotto dell’uomo. Erano quasi abbracciati e lui sentiva fortissimo il profumo dell’acqua di colonia dell’altro. Aveva un tale mal di testa da aver voglia di vomitare.
‹‹Sì… ›› rantolò. ‹‹Sì, mi scusi…››
Con uno sforzo che risultò terribile tornò dritto. Temette per un attimo di aver sporcato il vestito del suo interlocutore con le dita imbrattate di matita. Si sentì pieno di vergogna e chinò la testa.
‹‹Devo andare›› disse.
‹‹Come sarebbe che deve andare? Ha capito che cosa le ho appena detto?››
‹‹Sì… ma devo andare…››
Jacques mosse qualche passo, si accorse di potercela fare e prese coraggio. Alzò la mano per salutare l’uomo, poi la riabbassò, confuso, chiedendosi se era giusto o meno salutarlo. Si allontanò a piccoli passi strascicati.
‹‹Aspetti! Ha capito cosa le sto offrendo?›› Il Venditore di Miele tentò di seguirlo. ‹‹Ha capito? Tutti i suoi problemi sarebbero risolti! Mi ha ascoltato o no? Non le costerebbe niente! E’ un dono! Non le interessa?››
Jacques accelerò. Ora gli stava venendo un po’ di paura. Ballava tutto davanti ai suoi occhi e gli sembrava di avere la testa piena di sabbia bagnata.
‹‹Il potere di possedere chi vuole! Di possedere la realtà soltanto copiandola!›› gli gridò il Venditore di Miele, a pochi metri dalle sue spalle.
Jacques buttò un occhio verso di lui. Gli lesse in faccia uno stupore completo e comprese che l’avrebbe tallonato per tentare di convincerlo. Strinse i denti, si fece forza e si mise a correre.
Sentì la voce del Venditore di Miele che si allontanava mentre diceva: ‹‹Solo copiandola! Solo con i suoi disegni!››
Attraversò correndo un paio d’incroci, imboccò la strada che portava al ponte, oltrepassò il fiume e continuò a correre finché non raggiunse la stazione centrale. Qui dovette rallentare bruscamente per non urtare la gente in fila alla biglietteria, e per poco non si schiantò sul pavimento a quadri. Si diede dello stupido per aver agito in quel modo; decine di persone dovevano averlo visto correre come un pazzo, e se ci fosse stata una denuncia molti sospetti sarebbero caduti su di lui.
Andò a rinchiudersi nel bagno, dove finalmente si lasciò scivolare a terra, ansimando come se fosse appena scappato dall’inferno.
Attese qualche istante, poi si tastò la giacca. Il suo bottino era sempre lì, gli sembrava che bruciasse come un pezzo di magma incandescente. Lasciò scivolare le dita nella tasca e lo tirò fuori. Il portafogli del Venditore di Miele aveva davvero un design elegante. E certo lui doveva adorare le tinte unite, visto che era nero come già il cappotto, i pantaloni, e le scarpe.
Jacques lo aprì e vide che non si era sbagliato. Vendere il miele rendeva davvero bene, a quanto sembrava.
Era la prima volta che rubava qualcosa, e non ne andava fiero. Sentiva di dover espiare in qualche modo quella colpa. Ma intanto doveva nutrirsi. A castigarsi ci avrebbe pensato più tardi.
Zelda lo vide arrivare poco dopo l’ora di cena. Lo osservò mentre concedeva la solita carezza al cane, che guaiva di pura gioia ricoprendogli la mano di bacetti, e aspettò che si sedesse al bancone.
‹‹Come mai stamattina non ti sei fatto vedere? Hai trovato un bar che ti piace di più, brutto caprone?››
‹‹Ero senza soldi››
‹‹Stupido smidollato. E dove li avresti spesi, sentiamo? Ah, sono sicura che li hai persi a carte. Ti sta bene! Così impari a non darmi retta. E comunque potevi venire da me lo stesso. Quante volte devo dirtelo che a me non interessano i tuoi soldi pulciosi?››
Jacques immaginò una Zelda docile e rilassata e gli venne da ridere. Non era possibile, non sarebbe stata lei.
Gettò uno sguardo ai suoi disegni attaccati alle pareti. Molti erano delle caricature di Zelda. C’era Zelda nel corpo di un ippopotamo, Zelda con la testa di un carlino, Zelda fusa col cane, Zelda rappresentata come una divinità grassa e tirannica… e nemmeno una Zelda nelle vesti d’una principessa.
Magari aveva perso l’occasione di essere trattato con riguardo, di non soffrire più la fame atroce di quel giorno, di essere amato come un re.
Ma almeno così il cappuccino aveva il sapore di sempre.

Linda De Santi
Input: proverbio - Il vero artista non copia. Ruba.

mercoledì 14 marzo 2007

Il sorriso di Ada

Le 7.50, eccola lì! Ada, la dolce e buffa Ada. E’ sempre puntuale, tutte le mattine arriva con la sua Seicento, parcheggia, apre uno spiraglio del finestrino, saluta Chica, prende il suo borsone e aspetta paziente che il bagnino venga ad aprire il cancello. Piano piano, alla spicciolata arrivano anche tutti gli altri: la signora Lina, Maria, la Franca, Antonio il Bruschi e così via. Ma la prima è sempre lei. Due discorsi sul tempo, “ma perché oggi non aprono? Sono già le otto!”. “Eh, si vede che non c’è Paolo, lui è sempre puntuale”. “Davvero, lo conosco da quando era piccolo Paolo, è proprio un bravo ragazzo!”.
E quando finalmente qualcuno, con la faccia insonnolita e imbronciata, si decide a venire ad aprire il cancello, Ada raccoglie il suo borsone da terra e si avvia verso gli spogliatoi. E così inizia il rituale: l’armadietto è sempre il solito, il 16. Il costume se lo è già infilato a casa, si tratta solo di spogliarsi, armarsi di occhialini, cuffia e abbonamento e via verso la vasca. Tutte le mattine, a meno che non si senta male, Ada nuota nella vasca da 50 metri per un’ora buona. Qualche volta due o tre vasche in più, qualche volta in meno, l’importante è non mancare all’appuntamento. Anche il medico si è raccomandato “Signora Ada, lei ha una salute di ferro per i suoi 73 anni. Se la mantenga facendo tanto moto, non si fermi, mi raccomando! E tenga in allenamento anche il cervello che è la cosa più importante!”.
Ada è simpatica, saluta tutti, sorride sempre, è quello che si definisce “un cuor contento”. Se ti metti a parlare con lei ti sembra tutto facile, ti sembra che non esistano problemi e ti ritrovi ad invidiarla per il suo buon carattere e per la sua vita apparentemente tranquilla e beata. Ma quello che non tutti sanno è che Ada non è sempre stata così, sono le circostanze della vita che l’hanno cambiata, e chissà se è stato un bene o un male.

Tutto era cominciato un mercoledì di fine estate, tanti, tanti anni fa. Ada e Federico stavano passeggiando sulla battigia, quando il bambino fu attratto da qualcosa e corse verso il muro di cinta di una villa che si affacciava sul mare. Raccolse quello che da lontano ad Ada sembrò un sasso e ritornò verso la madre. I riccioli castani ancora umidi gli ricadevano ribelli sulla fronte, ma non nascondevano quella luce negli occhi che Ada continua a vedere ancora adesso.
“Mamma, che cos’è? Sembra una conchiglia ma ha una forma strana…”, disse perplesso il bambino.
“E’ una conchiglia fossile, amore” disse Ada sorridendo.
“E cosa vuol dire?” rispose di rimando Federico sgranando gli occhi incuriosito.
“E’ una conchiglia molto vecchia, avrà qualche milione di anni. Qui prima c’era il mare e in mare c’erano le conchiglie, quando il mare piano piano si è ritirato, le conchiglie sono rimaste in terra, e con il passare del tempo si sono trasformate in sassi. Vedi, questo è un pezzetto di roccia con incastonata la conchiglia. Probabilmente, se lo osservi bene, quel muro là è pieno di queste conchiglie.
Federico si girò per guardare il muro e con passo deciso ritornò nel punto in cui aveva raccolto la conchiglia.
“E’ vero mamma, ce ne sono tantissime!”.
Avevano trascorso proprio una bella giornata quel mercoledì lei e Federico. Si erano divertiti, avevano fatto il bagno, avevano costruito un castello di sabbia, avevano passeggiato a lungo insieme. Fra poco sarebbe ricominciata la scuola e Ada avrebbe ripreso a lavorare per cui non ci sarebbe più stata occasione per stare insieme un’intera giornata, e per di più Federico stava crescendo e presto avrebbe preferito la compagnia degli amichetti a quella della madre.
Quella sera, quando Sergio rientrò dal lavoro, Federico gli mostrò entusiasta la conchiglia fossile come fosse un prezioso trofeo conquistato dopo una dura e faticosa prova. Chissà perché ne era rimasto tanto impressionato. Giunto il momento di andare a dormire, Federico mise la conchiglia sulla mensola della libreria davanti al letto in modo da poterla guardare prima di addormentarsi.
La mattina Ada lo lasciò dormire un po’ più del solito e ne approfittò per fare delle faccende in casa. Alle nove e mezza andò nella camerina per vedere se Federico si era svegliato, in genere alle otto girava per la casa saltellando come un grillo e impaziente di uscire. Nell’aprire la porta Ada sorrise vedendo che la conchiglia dalla mensola era stata misteriosamente spostata sul comodino. Federico dormiva con uno sguardo beato e il sorriso sulle labbra.
“Svegliati dormiglione, è ora di andare al mare!”, Ada spalancò le persiane lasciando entrare il sole del mattino, si voltò e notò che l’espressione sul volto del figlio non era cambiata.
“Che c’è? Mi stai facendo uno scherzo? C’è una tazza di latte fumante di là che ti aspetta!”
Di solito a questa notizia Federico saltava letteralmente giù dal letto e correva in cucina, questa volta però non si mosse. Ada si avvicinò al figlio, lo chiamò, lo scosse, ma non ci fu nessuna reazione.

Lo studio del primario del reparto di Rianimazione dell’ospedale era freddo come solo le stanze degli ospedali sanno essere. Il dottore li fece accomodare su due sedie anonime davanti alla sua scrivania, poi si sedette a sua volta. Guardandoli con un’espressione di commiserazione e congiungendo le mani davanti a sé pronunciò queste parole:
“Signori Andolfi, la situazione è molto critica. Vostro figlio è entrato in uno stato di coma vegetativo irreversibile. Dalle lastre è emersa la presenza di una massa a livello cerebrale di natura congenita che è cresciuta con gli anni e che ha causato l’interruzione dell’afflusso di sangue al cervello. Questa interruzione è stata troppo prolungata perché ci sia la speranza di riportarlo a condizioni normali anche togliendola. Mi dispiace”.
Ada fissava il dottore, lo sentiva, vedeva che muoveva la bocca e che parlava, ogni tanto coglieva qualche parola: “massa”, “congenita”, “cervello”. Era rimasta impietrita, non riusciva neanche a parlare, avrebbe solo voluto morire.
Sergio dal canto suo aveva cominciato a piangere, le lacrime gli scendevano sulle guance senza che lui le potesse fermare, era un pianto dignitoso, era il pianto di una persona a cui in un attimo viene tolta ogni speranza.
Si guardarono, incapaci di dirsi una parola, Sergio le prese una mano e la tenne per tutto il tempo in cui il dottore spiegò loro cosa li avrebbe aspettati. Federico poteva “vivere” nello stato in cui era, per cinque, dieci, quindici anni, questo non si poteva prevedere, quello che era certo è che, una volta tornato a casa, avrebbe avuto bisogno di un’assistenza continua, 24 ore su 24.
Sergio e Ada non ebbero dubbi su cosa fare, avevano aspettato per anni l’arrivo di Federico e lui, come un dono dal cielo, era arrivato quando ormai avevano perso le speranze. Un giorno come tanti, dopo quindici anni di matrimonio, Ada aveva scoperto di essere rimasta incinta. E non avrebbero potuto desiderare un figlio migliore di Federico. Un bambino modello, bravo, intelligente, educato e vivace come tutti i bambini della sua età. Per otto anni Federico aveva regalato loro la felicità e loro si sarebbero dedicati a lui anima e corpo per tutto il tempo che gli restava da vivere.
Attrezzarono la sua camera secondo le istruzioni dei medici, Ada smise di lavorare e quando dopo tre mesi di ospedale le restituirono il figlio, si dedicò a lui completamente. Cominciò a studiare, a documentarsi, voleva che al figlio non mancasse nulla. E gli parlava, gli parlava per ore, gli raccontava storie fantastiche di bambini malati che con la forza dell’amore delle persone più care erano riusciti a guarire. Di tanto in tanto Federico veniva ricoverato per controlli periodici e Ada imparò a conoscere tutte le infermiere di Pediatria che piano piano trasformarono la compassione per lei in un grande senso di rispetto.
Lo stato di Federico si protrasse per altri tredici anni da quel fatidico mercoledì. Una mattina Ada entrò nella sua camera e lo trovò con un’espressione diversa nel volto: gli occhi aperti e lo sguardo rivolto verso la mensola della libreria sulla quale era stata riposta con cura la conchiglia fossile in modo che la potesse vedere agevolmente dal letto. Questa volta Federico si era addormentato per sempre.
La camera fu smantellata, Ada non voleva che le ricordasse il Federico malato, lo voleva ricordare vivo e sano, per cui la adibì a studio, la riempì di libri e vi allestì una collezione di conchiglie fossili che aveva cominciato a raccogliere dalla morte del figlio.
Qualche anno più tardi morì anche Sergio che non aveva mai saputo riprendersi completamente da quella tragedia.

“E’ fredda oggi l’acqua?”.
Scostandosi il cappuccio dell’accappatoio Ada si volta e scorge Stefania, “Oh bella, non t’avevo mica visto! Vai tranquilla, è solo un’impressione, appena ti tuffi e cominci a nuotare passa tutto.”
“Beata te, Ada mia, che non ti lamenti mai di nulla”.
“Perché? A cosa serve? Quando ti sei lamentata ti cambia qualcosa? Fammi vestire vai, che devo andare a far fare una giratina alla Chica prima di andare dai miei bimbi”.
Con gesti lenti e abituali, Ada si asciuga, si increma perché il cloro, si sa, secca la pelle, un’asciugata veloce ai capelli corti e sbarazzini e dopo avere salutato tutti esce. La Chica, che è stata tutto il tempo in piedi a guardare l’ingresso della piscina in attesa di vederla uscire, la saluta abbaiando dalla macchina. Ada rientra in macchina, parla un po’ con lei e si dirige verso l’ospedale, come tutti i giorni da non sa più nemmeno lei quanti anni. I suoi bimbi l’aspettano, lei gli racconta delle storie, se le inventa ogni giorno, cerca di parlar loro di mondi fantastici in cui tutti sono felici e lo fa sempre col sorriso sulle labbra trasmettendo loro un grande senso di pace.
Ma alla fine le chiedono sempre di quella favola in cui c’era un bambino che un giorno sul mare trovò una conchiglia strana, corse dalla sua mamma e le chiese:
“Mamma, che cos’è? Sembra una conchiglia ma ha una forma strana…”.

Cristiana Belcari
Input: Personaggio e conchiglia fossile

Non c’è tempo per fermarsi

Passando dall’ingresso Eva notò la posta abbandonata sul mobiletto sotto lo specchio. Era usanza della famiglia Ruggeri ritirare la posta dalla cassetta delle lettere una volta alla settimana. Un piccolo espediente per evitare inutili quanto contro producenti arrabbiature a distanza ravvicinata. Arriva sempre qualcosa da pagare, soprattutto quando meno te lo aspetti.
E anche questa volta era così: la luce, la retta dell’asilo di Margherita, la rata del televisore. Niente che la interessasse: quello era un giorno di festa e non aveva certo intenzione di farselo rovinare per così poco. Stava riponendo le buste quando ne notò una aperta che la incuriosì.
“Azienda Ospedaliera Pisana”, “Ospedale di Santa Chiara”.
Un tuffo al cuore: il risultato della biopsia.
Si era quasi dimenticata dell’operazione, le feste natalizie, la gioia delle bambine, l’atmosfera particolare di questo periodo dell’anno l’avevano completamente distratta da quel pensiero. E poi, insomma, stava bene, non c’era nulla da temere.
Spiegò il foglio e lo avvicinò al viso per leggere il risultato. Il linguaggio dei medici le era da sempre risultato abbastanza incomprensibile, ma tra tutte quelle parole una le saltò agli occhi: CARCINOMA.
Ma come? Hanno sicuramente sbagliato, quella parola non è riferita a me!
Cercò di calmarsi, appoggiò la mano destra al mobile, un improvviso senso di vertigine rischiava di farla cadere.
“Mamma, mamma……Margherita mi ha dato un pizzicotto!”.
“E lei mi ha tirato i capelli!”.
“Mamma…!”.
Sia Caterina che Margherita avevano cominciato a piangere cercando conforto nella madre. Eva riemerse dallo stato di trance in cui era piombata e, con gli occhi fissi nel vuoto, disse qualcosa alle figlie, parole che successivamente non sarebbe stata in grado di ricordare, ma che ebbero il subitaneo effetto di calmarle.
“Riccardo? Riccardo? Dove sei?”. Il primo istinto fu quello di cercare il marito. In fin dei conti era lui che aveva aperto per primo quella busta.
Lo trovò di sopra, stava cambiando Stella. Per la terza volta nel giro di cinque ore!
“Che c’è amore?”.
“L’hai letta questa lettera?, gli chiese Eva mostrandogli il foglio che teneva in mano.
“Sì” rispose lui col tono più naturale e tranquillo di questo mondo.
“Ma hai capito che cosa c’è scritto?”, esclamò sbalordita Eva.
Riccardo la guardò senza capire, finì di rivestire Stella, la portò di sotto e la depose delicatamente sul tappeto vicino alle sorelle che, come se non avessero mai avuto nessuno screzio tra di loro, stavano allegramente giocando a fare le principesse.
Infine, sedendosi sul divano si rivolse ad Eva: “Che cosa dovevo capire? E’ il risultato della biopsia, no?” .
Eva si rese conto che il marito non aveva realizzato che cosa significasse la parola carcinoma. Era stanco, lavorava dodici ore al giorno, spesso doveva andare all’estero per settimane, dopo la nascita di Stella, Eva era stata costretta a smettere di lavorare e naturalmente, con l’arrivo non previsto della terza bambina, le spese erano lievitate.
Eva lo guardò con tenerezza: “Amore, ho un tumore”, gli disse sottovoce con gli occhi velati di lacrime.
Si guardarono in silenzio, erano entrambi sconvolti e impotenti, sapevano di non potersi lasciare andare per non spaventare le bambine, e allo stesso tempo non sapevano che cosa pensare, che cosa dire, che cosa fare.
Trascorsero in silenzio una decina di minuti cercando di riprendersi dalla notizia e di capire che cosa avrebbero dovuto fare.
Fu Eva a rompere il silenzio: “Proviamo a chiamare Alessandro” disse.
Alessandro aveva abitato insieme a Riccardo a Pisa ai tempi dell’Università. Dopo la laurea si era specializzato in medicina nucleare, ed era lui che le aveva consigliato di togliersi la tiroide. Eva soffriva da anni di problemi alla tiroide per la presenza di alcuni noduli e si sottoponeva periodicamente a controlli che però non avevano evidenziato nessun problema in particolare. Durante quest’ultimo anno però uno di questi noduli si era particolarmente ingrossato e, nonostante l’ago aspirato non avesse evidenziato nessuna presenza di cellule maligne, le avevano consigliato l’operazione.
Avevano programmato l’intervento per la settimana prima delle feste natalizie per creare meno problemi possibili sia al lavoro di Riccardo che alla routine delle bambine. Dopo aver trascorso le feste in famiglia erano rientrati a Ginevra e si accingevano a riprendere la vita di sempre quando era arrivato il risultato della biopsia.

Alessandro era stato molto chiaro al telefono: Eva avrebbe dovuto ricoverarsi entro un mese al Santa Chiara di Pisa per sottoporsi ad un trattamento di iodio radioattivo.
Eva e Riccardo avevano immaginato che Eva avrebbe dovuto sottoporsi ad una terapia, ma non ne avevano previsto le conseguenze.
Quaranta giorni lontana dalla famiglia.
“Come faremo?”, esclamò Riccardo dopo aver fatto mente locale. “Io ho in programma due trasferte di quindici e venti giorni a New York per i prossimi due mesi! Su tua madre non ci si può fare affidamento. L’unica alternativa che mi viene in mente è di chiedere ai miei di trasferirsi qua per un mese”.
“Credi che lo faranno?”, chiese Eva guardandolo con espressione scettica.
“Non lo so” rispose Riccardo dubbioso, “ma se non glielo chiediamo nemmeno non lo sapremo mai”.

Assorbito lo shock iniziale erano subentrati i problemi pratici e organizzativi da risolvere, e Eva fu talmente presa da questi pensieri da far passare in secondo piano il suo stato di salute. Quello che contava era che le bambine non risentissero minimamente della situazione, né ora né quando tutto ciò sarebbe finito.
La famiglia di Riccardo rispecchiò le previsioni proponendo soluzioni che invece di facilitare complicavano ulteriormente le cose.
Eva trascorse il mese che la separava dall’inizio della terapia a pianificare e programmare giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, la vita delle figlie, senza tralasciare il più piccolo particolare, concentrata solo a far sì che per le piccole non si presentassero grossi cambiamenti.
Fu in questa occasione che scoprì l’importanza dell’amicizia e quanto lei e Riccardo alla fine fossero stati fortunati e bravi allo stesso tempo a costruirsi negli anni una rete di amicizia così salda e affidabile.

Un mese passa in fretta e alla fine arrivò il giorno della partenza e della separazione dalla famiglia. Poi ci fu la terapia e i soggiorni “forzati” presso gli amici, l’esito positivo delle visite di controllo, la gioia, il sollievo, il conto alla rovescia per il ritorno alla vita normale, alla propria vita.
“Mamma, sono Eva. Come stai?”.
“Ciao Eva. Dove sei?”.
“Sono in Italia mamma, ho dovuto fare una visita di controllo per quell’operazione che ho fatto prima di Natale. Ti ricordi?”.
“Ah, sì… Mi vieni a trovare?.
“Vengo domani, mamma, così ti accompagno dal dottore. Va bene?”.
“Sì, cara. Ti aspetto”.

L’ufficio del dottor Mori era caldo e accogliente, pieno di libri, con la scrivania ingombra di riviste specializzate. La signora Sandri si sedette con la figlia al fianco. Aveva l’espressione tipica di chi guarda ma non vede, delle persone che parlano semplicemente perché le parole escono loro dalla bocca per abitudine, senza corrispondenza con quello a cui stanno pensando.
Il dottore guardò Eva, e lei capì. Non c’era bisogno di parlare.

Il rumore della chiave nella toppa fece voltare di scatto Anna proprio nel momento in cui Eva entrava in casa.
“Ciao, come è andata? Cominciavo a stare in pensiero, sono le nove e non ho tue notizie da stamani mattina”, esclamò tutto di un fiato Anna.
“Ciao. Scusa se non ti ho chiamata E’ che non ho avuto un momento libero”, Eva fece una pausa. “Il dottor Mori ha ordinato il ricovero d’urgenza per mamma e nella clinica psichiatrica del Santa Chiara non c’era posto, per cui è stata ricoverata in una clinica che si trova in un paesino vicino Lucca di cui non ricordo neppure il nome”. Eva si lasciò cadere sul divano, lo sguardo perso nel vuoto.
Anna era rimasta immobile, incapace di dire qualsiasi cosa che non suonasse banale.
“Vorrei piangere”, continuò Eva, “vorrei urlare, vorrei sfogare tutto quello che mi tengo dentro da un mese a questa parte, ma non posso. Non posso permettermi di lamentarmi del fatto che non vedo mio marito e le mie figlie da quindici giorni e del fatto che non li potrò vedere ancora prima di quattro settimane. Non posso nemmeno fermarmi a pensare che sto facendo tutto questo per il loro bene, che più tempo sto loro lontano più si allontana la possibilità di contaminarli in qualche modo. Non posso concentrarmi su me stessa e sul sollievo che le cose si stanno risolvendo. E non posso neppure lamentarmi di dover fare ancora una volta da madre a mia madre. Posso solo rimboccarmi le maniche e andare avanti. C’è lei a cui pensare ora”.

Cristiana Belcari
Input: Proverbio

Strane missive

La chiave scivolò inaspettatamente nella toppa e il portone si aprì. –Non ci posso credere, hanno riparato la serratura!- Entrò velocemente per sfuggire al libeccio che inesorabile imperversava da tre giorni. Con il calcagno sinistro dette un colpo leggero al portone che si richiuse. Non era un gesto molto femminile, ma del resto non poteva fare altrimenti. La mano destra stava lottando con il manico della confezione di acqua da sei bottiglie che stava cominciando a tracciare un solco nel suo palmo. Con la sinistra invece reggeva due buste della spesa mentre infilato al dito indice penzolava l’anello del portachiavi che Elena le aveva regalato per il suo ultimo compleanno.
Con la coda dell’occhio destro lanciò uno sguardo alla cassetta della posta. Una busta bianca stava in bilico appoggiata alla pubblicità dei prodotti in promozione al supermercato. Il cuore cominciò a pulsare velocemente e un senso d’ansia la costrinse ad un respiro profondo. Posò le buste e riluttante si accinse ad aprire la cassetta numero 9. Sapeva già di che cosa si trattava anche se aveva sperato fino all’ultimo in una bolletta da pagare. Ritirò la busta, richiuse la cassetta, riprese il suo carico e si avviò all’ascensore.
Aveva messo a posto la spesa con cura, lentamente. Si era liberata di quelle scarpe che l’avevano martoriata tutto il giorno. Ogni volta che passava dalla cucina la vedeva; era lì, sul tavolo, in attesa di essere aperta.
Alla fine si decise. Stappò una bottiglia di Sauvignon, se ne versò un bicchiere e si sedette davanti alla busta.
“SMETTILA, TE L’HO GIA’ DETTO. SE CONTINUI FARAI UNA BRUTTA FINE!”.
Era come le altre, scritta con ritagli di giornali. Ormai era la terza in tre mesi.
Prese il telefono e compose il numero di Elena.
«Pronto».
«Ciao, sono io.»
«Ciao Claudia. Com’è?»
«Ne è arrivata un’altra».
Ci fu un attimo di esitazione dall’altro capo del filo, ma non appena ebbe realizzato di cosa Claudia stesse parlando, Elena esplose: «No, non ci posso credere! Ti decidi o no ad andare alla Polizia? Guarda che domani ti ci porto io di peso e questa volta non voglio sentire scuse. Che c’è scritto in questa?».
«Le solite cose, le solite minacce», Claudia lesse quelle poche righe all’amica.
«Ok, basta. Domattina si va. Entro più tardi al lavoro, non me ne importa nulla, ma voglio essere sicura che tu ci vada e siccome non mi fido ci vengo anch’io».
«Va bene, va bene. Passo a prenderti io alle otto e mezza».
Elena aveva ragione, non poteva più rimandare, ormai era la terza lettera di questo genere che le arrivava e cominciava ad avere un po’ di paura.

Dopo aver lasciato la macchina al parcheggio dei Quattro Mori entrarono in Questura e chiesero a quale ufficio dovevano rivolgersi per presentare una denuncia.
«Terzo piano, corridoio di destra dall’uscita dell’ascensore, seconda porta sulla sinistra».
Salirono a piedi, Claudia aveva bisogno di aria e preferì fare le scale. La targa sulla porta recitava: ‘Ispettore V. Vannucci’. Claudia bussò.
«Avanti» esclamò una voce profonda e rassicurante.
«Buongiorno, possiamo rivolgerci a lei per una denuncia?».
«Prego, accomodatevi».
L’ufficio era luminoso e spazioso. Claudia ed Elena si sedettero davanti alla scrivania dell’Ispettore Vannucci. I loro sguardi palesavano una certa preoccupazione di cui l’ispettore, avvezzo al suo lavoro, si era accorto dal momento in cui avevano messo piede nel suo ufficio.
«Ovvia, ditemi tutto. Che è successo?».
A Claudia venne da sorridere, il suo accento tradiva apertamente le sue origini fiorentine e i fiorentini le avevano sempre suscitato simpatia.
«In realtà non so da dove cominciare… E’ che… Sì, insomma… recentemente ho ricevuto delle lettere anonime, dapprima ho cercato di non dare molto peso alla cosa, ma ora…».
«Ispettore, ne ha ricevute tre in tre mesi. Io glielo dicevo che doveva fare una denuncia, insomma che doveva venire alla Polizia, ma lei, mi creda, è una capatosta…». Elena non aveva resistito e aveva preso la parola. Come sempre del resto, proprio non ce la faceva a far parlare gli altri.
«Va bene, va bene. Andiamo con ordine. Lei come si chiama e che professione fa?» chiese con tono autoritario l’ispettore Vannucci.
«Claudia Ristori. Sono un medico di base ed esercito anche come dietologa avendo frequentato un corso parauniversitario in questa materia».
«Uhmm…», l’ispettore annotò il nome su un foglio. «Ok. Mi racconti un po’ di queste lettere».
«C’è poco da dire, ispettore. Sono messaggi minatori scritti con lettere ritagliate da un giornale. E il contenuto è pressoché sempre lo stesso, cambiano poche cose».
«Le ha portate con sé?» chiese l’ispettore.
«Certo». Claudia rovistò nella borsa, tirò fuori le tre lettere e le porse all’ispettore. «Eccole qua. Sono in ordine d’arrivo».
L’ispettore Vannucci, dopo essersi infilato un paio di guanti di lattice, esaminò le tre lettere.
-Cavolo! Non ci avevo mica pensato alle impronte- rimuginò tra sé e sé Claudia e d’istinto le venne da guardare Elena che, dall’espressione stampata sul suo volto, stava pensando esattamente la stessa cosa.
«Ha un’idea di chi le possa aver mandate e del motivo?» chiese l’ispettore.
«Assolutamente nessuna. Mi ci sto scervellando da tempo e non riesco a venirne a capo». Claudia aveva passato in rassegna varie volte, negli ultimi tempi, tutte le persone che conosceva o che aveva conosciuto, ma nessuno, a suo giudizio, poteva aver sviluppato un rancore tale nei suoi confronti da arrivare a minacciarla.
«Mi scusi la domanda ma devo fargliela: qual è la sua… situazione sentimentale?» chiese con un certo imbarazzo l’ispettore.
«Certo, non si preoccupi, capisco… Sono separata ormai da quattro anni, non ho figli e al momento non ho nessun legame».
«E i rapporti con il suo ex-marito come sono?».
«Ottimi direi. Se ne è andato da Livorno orami da tre anni e attualmente abita a Oslo».
-La questione si fa complicata- pensò il Vannucci tra sé e sé. –Se escludiamo la pista passionale il campo d’indagine si allarga oltre misura…-. Cercò di assumere un tono professionale e rassicurante: «E sul lavoro? Come vanno le cose? Ha notato qualcosa di strano ultimamente? Si ricorda qualche episodio particolare in cui ha dovuto discutere con qualche paziente, con un collega? Sa, a volte si verificano episodi che al momento giudichiamo irrilevanti ma che con il tempo acquistano un significato diverso se visti sotto un’altra luce».
«Ispettore, mi creda, ci ho pensato tanto ma proprio non mi viene in mente nulla. La mattina sono in giro per le visite a domicilio e nel pomeriggio faccio ambulatorio alternandomi tra lo studio di via del Pastore a Ardenza e quello di via Grande dove esercito anche come dietologa. Sinceramente non ho mai avuto problemi con nessun collega e tantomeno con i miei pazienti».
«E nel suo tempo libero che fa? Voglio dire, frequenta dei locali…».
«Ispettore, sono una persona normalissima, non ho amicizie particolari, frequento posti normali… voglio dire, vado al cinema, al teatro, al ristorante. Insomma, non faccio niente di speciale».
«Va bene, dottoressa. Direi che, per come stanno le cose, cominceremo ad indagare basandoci su quello che abbiamo. Tratterrò le lettere e le farò analizzare dalla Scientifica, con la speranza che ne venga fuori qualcosa su cui lavorare».
Elena era rimasta stranamente in silenzio per tutto il tempo, mantenendo un’espressione contrita e la fronte leggermente aggrottata nell’atteggiamento di chi sta rimuginando qualcosa.
«Scusi Ispettore, ma a questo punto, se ho ben capito, chiunque potrebbe aver inviato quelle lettere. Come fate ad indagare? Da che cosa partite?».
L’ispettore sorrise, guardò Elena e le disse: «Signora, ad ognuno il suo lavoro. Mi creda, oggi giorno si può fare di tutto. Voi cercate di stare tranquille e di non preoccuparvi… e se notate qualcosa di strano venite subito a riferirmelo».
Una volta finito di riempire il modulo della denuncia, uscirono dalla Questura.
«Devo scappare, ho una riunione a mezzogiorno e se non mi sbrigo non arriverò mai in tempo».
«Grazie di tutto Elena, grazie del sostegno morale. Pensi che riusciremo a risolvere questo mistero?», domando Claudia con un po’ di apprensione.
«Certo, ma che scherzi davvero?» rispose Elena imitando l’accento fiorentino dell’ispettore. «Sarà anche fiorentino ma il Vanni mi pare in gamba?».
«Come fai a sapere che si chiama Vanni?», domandò Claudia divertita.
«Dé, ho sbirciato tra i fogli sulla sua scrivania e ho visto delle lettere intestate all’ispettore Vanni Vannucci. Avevano parecchia fantasia in casa sua!», disse Elena mentre saliva in macchina.
Si salutarono e Claudia decise di concedersi una passeggiata al porto. Era un posto che la rilassava tanto e le piaceva fermarsi a guardare i traghetti che uscivano in mare aperto guidati dai rimorchiatori. Le piacevano anche le navi da crociera che sostavano per un solo giorno per permettere ai turisti di andare a visitare Firenze, Pisa, Lucca. -A Livorno non si ferma mai nessuno- pensò, -però ci sono passati quasi tutti, se non altro per andare in Corsica o in Sardegna-.
Attraversò al semaforo in fondo a via Grande, di fronte alla statua dei 4 Mori, e si diresse verso via del Molo Mediceo. Costeggiò le mura accompagnata dal rumore tipico di ogni porticciolo: la musica delle drizze che battono sugli alberi dalle barche a vela e il cigolio dei parabordi quando si sfregano da una barca all’altra. Il libeccio, dopo tre giorni di sfuriate, se ne era finalmente andato lasciando il mare libero di scaricare le ultime energie verso riva.
Tutta questa storia stava cominciando veramente a stancarla, ma quello che la innervosiva di più era il non riuscire a trovare alcun collegamento che l’aiutasse a capire che cosa stava succedendo.
Si sedette su uno scoglio e si mise ad osservare il traffico delle imbarcazioni che entravano e uscivano dal porto.

«Che cosa ne pensa, ispettore?» chiese il sovrintendente Paolo Cambini dopo aver letto il verbale.
«Mi sembra che al momento ci siano davvero pochi elementi su cui pensare», esclamò il Vannucci lisciandosi la barba con la mano destra. «Direi di cominciare con lo scoprire da dove sono state spedite le lettere. Da lì poi vediamo che cosa ci viene in mente. Tu ti occupi di questo e di tutto ciò che riguarda le lettere: impronte, analisi dei ritagli ecc. Io cercherò di scoprire qualcosa sulla nostra dottoressa. Non si sa mai… magari ha una seconda vita della quale non ci ha parlato».
Il sovrintendente Cambini uscì dalla Questura e si diresse a piedi verso Piazza Grande. Sarebbe andato alle Poste Centrali di via Cairoli a trovare Tommaso, un suo vecchio amico di scuola che era diventato dirigente alle Poste e che era sempre pronto a dargli una mano.
L’ispettore Vannucci invece decise di cominciare andando a fare qualche domanda alla Asl.

Claudia, seduta su uno scoglio con lo sguardo perso all’orizzonte, cercava disperatamente di trovare il bandolo della matassa. Questi pensieri la portarono inevitabilmente a fare un sommario bilancio della sua vita fino a quel momento.
Era sempre stata la prima della classe, una studentessa modello, la figlia che ogni genitore desidera avere. Era, a detta di tutti, una gran bella donna, alta, magra, un bel portamento, un bel viso, un bel carattere, sempre disponibile e sorridente. Non perdeva mai la pazienza e questa dote l’aveva aiutata moltissimo nella sua professione. Sapeva ascoltare e rassicurare, era brava soprattutto a trattare con gli anziani che, puntuali, tutte le mattine si presentavano in ambulatorio spesso con mali immaginari, bisognosi solo di qualche parola di conforto e di una medicina segnata su un foglietto bianco, da brandire in aria all’uscita dallo studio come un trofeo di cui andare fieri.
Riusciva sempre a far tornare in forma tutti coloro che la andavano a trovare per problemi di sovrappeso, ma soprattutto riusciva a convincere ragazzine semianoressiche che un corpo scheletrico non rappresenta un lasciapassare nella vita e che i problemi sono altri.
Nella vita privata era stata un po’ meno fortunata ma non se ne faceva un cruccio. Aveva conosciuto Alberto ai tempi del Liceo, si erano fidanzati giovani, erano cresciuti insieme e dopo l’Università si erano sposati senza in realtà pensarci troppo, come se fosse un’inevitabile conclusione alla loro storia. Avevano fatto quello che tutti si aspettavano che facessero, perché era “normale” così. Dopo qualche anno si erano resi conto che nel loro rapporto mancava la passione, si volevano un gran bene ma questo non era sufficiente. Così avevano preso la fatidica decisione che aveva provocato il disappunto di tutti. Alberto aveva ottenuto un posto di ricercatore all’Università di Oslo e se ne era andato. Continuavano a sentirsi, quasi tutti i giorni via mail ed il loro rapporto non era mai stato più bello di ora.
Sapeva di aver, per la prima volta deluso le aspettative dei suoi genitori che aspettavano con ansia dei nipoti di cui prendersi cura, ma sapeva anche che erano persone intelligenti e che avevano capito.
Da quando il suo matrimonio era finito aveva avuto qualche relazione ma nulla di importante. Ultimamente aveva conosciuto Marco al corso di yoga che frequentava la sera insieme ad Elena.
Le piaceva, ma soprattutto a Marco piaceva lei e non aveva esitato a farglielo capire. Claudia però si sentiva in una fase della sua vita in cui voleva solo stare bene con se stessa e non aveva voglia di impegnarsi nuovamente, non era il momento. Era sempre gentile con lui e se c’era da uscire per fare qualcosa tutti insieme non si tirava mai indietro. Elena la rimproverava, le ripeteva sempre che comportandosi così gli dava false speranze, secondo lei avrebbe dovuto parlarci chiaramente e mettere fine a questa storia.
Il fischio della sirena della Moby che stava entrando in porto la ricondusse alla realtà. Si rese conto che da più di un’ora era su quello scoglio a passare in rassegna la sua vita, quando invece avrebbe dovuto avviarsi verso l’ambulatorio di Ardenza dove i suoi impazienti pazienti la stavano aspettando.
Si alzò di scatto e volte le spalle al mare ritornò verso il parcheggio.

«Allora? Che cosa hai scoperto?», chiese il Vannucci al Cambini entrando in ufficio.
«Ispettore, ma lo sa che se imbuca una lettera per la città invece di smistarla qui la mandano a Pisa e poi ritorna?», esclamò il sovrintendente come se stesse pensando a voce alta.
«Andiamo con ordine Cambini. Spiegati meglio» disse l’ispettore affondando nella sedia davanti alla sua scrivania.
«Ok. Delle tre lettere due hanno il timbro di Pisa e una quello di Livorno. Questo cosa vuol dire? Che se io imbuco una lettera da una qualsiasi cassetta delle lettere della città con destinazione Livorno, la lettera viene ritirata dalla cassetta, portata in via Masi, inviata con tutto il carico postale di Livorno al CPO (Centro Operativo Postale) di Ospedaletto vicino a Pisa, lì lavorata e rispedita alla sua destinazione finale. Questo significa che non si può sapere da dove la lettera sia stata imbucata, a meno che non sia stata portata direttamente presso un Ufficio Postale e consegnata all’impiegato dello sportello invece che imbucata nella cassetta. In quel caso la lettera porta il timbro dell’agenzia da dove parte e poi naturalmente quello di Pisa perché a Pisa ci finisce comunque per essere lavorata. In conclusione, nel nostro caso, due delle lettere hanno il timbro di Pisa e quindi non si può sapere da dove sono state imbucate, ma una ha il timbro di Livorno Centro e quindi è stata consegnata alle Poste Centrali di via Cairoli».
«Bene, ottimo lavoro Cambini, anche se questo non ci è di molto aiuto…» borbottò l’ispettore. «E delle impronte che mi dici?» aggiunse subito dopo.
«Ho fatto analizzare sia le buste che le lettere, ma dé ispettore, si immagina da quante mani sono passate quelle buste? Sulle lettere c’è un po’ più di speranza nel senso che ci sono meno impronte, ma è sempre come cercare un ago in un pagliaio. Di sicuro ci sono quelle della Ristori e della sua amica… come si chiama?».
«Elena Tanini» disse l’ispettore.
«Ah, ecco sì, Elena Tanini. Insomma dalle impronte non è che si possa rilevare granché».
«E dei ritagli cosa mi dici?».
«Qui viene il bello caro il mio ispettore. Pare che il nostro ‘uomo’ sia un patito del Livorno!». Sulla faccia del sovrintendente Cambini comparve un sorriso compiaciuto. Sapeva che avrebbe punto sul vivo l’ispettore che veniva regolarmente punzecchiato per essere un irriducibile tifoso viola. La Fiorentina non riusciva mai a vincere a Livorno e a lui toccava subire in silenzio le frecciatine di tutti quei colleghi patiti del Livorno e di Lucarelli che era diventato un eroe nazionale quasi più amato del mitico vecchio Ciampi.
«Ma va? Che novità? Non l’avrei mai detto!» disse in tono ironico l’ispettore. «E questa originale deduzione da che cosa sarebbe scaturita?» aggiunse a questo punto incuriosito.
Cambini cercò di trattenere il sorriso che spontaneo gli affiorava sulle labbra. Lo divertiva tanto vedere quest’uomo, sempre così serio, rigido e impostato, reagire come un bambino alle provocazioni sulla sua Fiorentina. Represse la risata, in fin dei conti era sempre un suo superiore, e questo non era davvero il momento, avrebbe rimandato a più tardi il proseguo di questa piccola tortura.
«Riprendiamo i testi delle lettere: DOVE PENSI DI ARRIVARE COMPORTANDOTI COSI’? IL GIOCO E’ BELLO QUANDO DURA POCO. Questa è la prima, la seconda recitava: LA PARTITA SI STA METTENDO MALE. VEDI DI FERMARTI FINCHE’ SEI IN TEMPO. E la terza: SMETTILA, TE L’HO GIA’ DETTO. SE CONTINUI COSI’ FARAI UNA BRUTTA FINE. Tutte e tre hanno una più o meno velata allusione a giochi, partite, comportamenti…».
Sul volto dell’ispettore spuntò un’espressione scettica e divertita allo stesso tempo, come di chi sta aspettando che l’avversario faccia una mossa falsa per fare scacco matto. Ma decise di lasciarlo continuare, voleva vedere dove andava a parare con questa strana teoria del gioco del calcio.
«…Insomma, la Scientifica analizzando i ritagli, per il tipo di inchiostro, la grammatura della carta ecc., ha dedotto che sono stati presi dal Tirreno. Lo sa che in genere la grammatura della carta dei giornali è di 60 gr., mentre quella usata dal Tirreno è di 65 gr.?».
«No, non lo sapevo, ma a questo punto mi viene da pensare: meglio così! Ma continua, ti prego…», disse il Vannucci.
«Sì, insomma, i ritagli sono del Tirreno e la cosa che più ci aiuta in questo caso è che il nostro uomo invece di ritagliare lettera per lettera, ha ritagliato parole intere. E le ha prese talvolta dai titoli, talvolta dal corpo degli articoli, talvolta dalle didascalie delle foto, talvolta dagli occhielli».
«E allora?», l’ispettore cominciava a spazientirsi, questo Cambini veniva su bene e la cosa lo disturbava e inorgogliva allo stesso tempo.
«Sono andato al Tirreno e insieme al loro archivista abbiamo analizzato i testi degli articoli sportivi degli ultimi quattro mesi. E le parole ritagliate risulterebbero provenire tutte da articoli sulle partite del Livorno.» E aggiunse con un velo di malizia: «Solo quelle però in cui Lucarelli ha segnato!».
«Allora il nostro uomo ha dovuto penare, con Toni sarebbe stato più facile!». L’ispettore non ce l’aveva proprio fatta a resistere alla provocazione e resosi conto che non avrebbe dovuto cedere così, riprese un tono professionale facendo finta di nulla.
«Comunque devo dire che hai fatto proprio un buon lavoro Cambini. Ricapitolando possiamo dedurre che il nostro indiziato è di Livorno, è tifoso del Livorno e chiaramente del vostro ‘eroe nazionale’ Lucarelli, legge il Tirreno e ha l’hobby di importunare belle dottoresse attraverso missive anonime. Uhmm… direi che abbiamo fatto il quadro di più della metà della popolazione cittadina se escludiamo l’insolito hobby», esclamò il Vannucci.
«E lei che cosa ha scoperto, ispettore?» gli rilanciò il sovrintendente un po’ indispettito per essere stato prima elogiato e poi sminuito.
«Una vita troppo perfetta, una donna troppo perfetta. Non ci sono appigli, non ci sono apparenti motivi per cui qualcuno ce la possa avere con lei». L’ispettore aveva pronunciato queste parole fissando il mare dalla finestra. Con la mano destra fece il gesto di chi vuole scacciar via un brutto pensiero dalla sua mente, si voltò di scatto e disse: «E se andassimo a mangiare? Mai far lavorare il cervello a stomaco vuoto!».
«Ottima idea. Ci si fa un bel cacciucchino, ispettore?» propose il Cambini.
«Sempre il cacciucco, ma non mangiate altro a Livorno? Mai che tu mi proponga una bella fiorentina alta quattro dita!».
«Ispettore, ma quando se ne farà una ragione di abitare a Livorno?».
«Credo mai. Andiamo vai, mangiamo questo benedetto cacciucco così per qualche giorno non se ne parla più». In fin dei conti all’ispettore piaceva quella zuppa di pesce ma si guardava bene dall’ammetterlo.

Erano già passate più di tre settimane e la Polizia non era ancora venuta a capo di niente. L’ispettore Vannucci l’aveva chiamata un paio di volte e si erano incontrati in un bar del centro per scambiare due chiacchiere in un ambiente meno formale che gli uffici della Questura. L’ispettore pensava che mettendo le persone a loro agio avrebbero potuto raccontare particolari della loro vita utili per le indagini. Ma anche questo metodo non aveva funzionato. Claudia gli aveva raccontato della sua vita, gli aveva perfino portato un elenco dettagliato di tutti i suoi pazienti, sia dei mutuati che di quelli che si recavano da lei per visite specialistiche. Dopo qualche giorno l’ispettore l’aveva richiamata dicendole che non erano emersi indizi tali da giustificare uno spostamento delle indagini verso una o un’altra persona. Avevano risentito anche Elena in qualità di persona informata sui fatti. In fin dei conti l’aveva resa partecipe di tutto fin dall’inizio e conosceva ogni più piccolo particolare della sua vita. Anche lei era una sua compagna di Liceo, si erano sempre confidate tutto, avevano vissuto insieme i primi amori, le difficoltà degli studi all’Università, le delusioni sul lavoro, i viaggi. Insomma, il bene e il male. Elena non si era mai sposata, la natura non era stata molto benevola nei suoi confronti, non era molto alta, aveva sempre avuto un paio di chili in più, ma era una donna molto intelligente e simpatica, arguta e perspicace, piena di amici e di persone che le volevano bene. Se non fosse stato per lei e per il suo appoggio, difficilmente avrebbe superato così bene il momento della separazione e poi del divorzio.
Avevano appuntamento per le sei in Piazza Cavour, un giro per negozi, un aperitivo dal Vinaino e poi al cinema. La stava aspettando da dieci minuti quando la vide arrivare trafelata.
«E’ tanto che aspetti?» le domandò senza fiato.
«No, non ti preoccupare. Ma cosa ti è successo? Perché sei così agitata?», chiese Claudia vedendole un’espressione strana in viso.
«No, niente. Non ho voglia nemmeno di parlarne. Tanto sono sempre i soliti discorsi. Mi ha appena chiamata la mia mamma perché vuole che domenica vada a un pranzo di famiglia. Tutte le volte me lo fa apposta, come se non lo sapesse che c’ho l’abbonamento. Questa cosa che vado allo stadio proprio non le va giù. Le ho anche dato il calendario delle partite con evidenziate le date in cui il Livorno gioca in casa. Ma niente! Continua ad organizzare importantissimi pranzi di famiglia dove si devono discutere argomenti di rilevanza vitale quando ci sono le partite in casa. Non ne posso più».
A Claudia venne da sorridere, erano amiche per la pelle ed avevano gli stessi gusti per tutto fuorché per il calcio. A Claudia non interessava minimamente, mentre per Elena era quasi una droga.
«Vabbè, siamo qui per rilassarci, no? Raccontami qualcosa di bello. Ci sono novità sulle indagini?», domandò Elena cambiando discorso.
«Niente di niente. Secondo me il tuo amico Vannucci brancola nel buio. Ha voluto anche un elenco di tutti i miei pazienti ma pare non sia emerso niente di interessante. mi ha detto con la sua voce impostata, ma nulla che giustifichi quelle lettere».
«Per lo meno è da un po’ di tempo che non ne ricevi. Vediamo il lato positivo delle cose!», disse sorridendo Elena.
«E’ vero! E direi che potremmo passare a dei discorsi più seri, tipo quelle scarpe che ti volevo far vedere?».
«Già, mi sembra un ottimo spunto per alzare il livello della conversazione!».
Si presero a braccetto e si avviarono verso via Ricasoli pronte a svaligiare un paio di negozi.

Era passato più di un mese da quando la dottoressa Ristori insieme alla sua amica Tanini, erano entrate nel suo ufficio per sporgere denuncia contro ignoti. Nonostante il carico di lavoro quotidiano, quella pratica era sempre bene in evidenza sulla sua scrivania. C’era qualcosa che non gli tornava in quella storia. Il sovrintendente Cambini, dopo il brillante esordio di inizio indagini si era totalmente arenato e, incapace di qualsiasi ulteriore iniziativa, aspettava che il capo desse un nuovo impulso alle indagini. Vannucci aveva esaminato e riesaminato i nomi dei pazienti della dottoressa, la lista degli amici, conoscenti, colleghi, parenti e di tutte le altre persone che volutamente o incidentalmente frequentava giornalmente. Eppure la soluzione doveva essere lì. Sicuramente era lì sotto i suoi occhi e lui non la vedeva.
«Vado a fare un giro al mercato, Cambini. Tra un’ora al massimo sarò di ritorno», disse alzandosi l’ispettore.
«Va bene. Non si preoccupi, l’ufficio è in buone mani!», scherzò Cambini. Sapeva che il mercato era il posto preferito dall’ispettore, gli aveva spiegato tante volte che il gironzolare senza meta tra banchi di melanzane, patate e carote, e sentire gli ambulanti che strillavano i prezzi per invogliare le casalinghe all’acquisto, lo aiutava a concentrarsi e a capire che pista doveva seguire per questa o quella indagine.
La giornata era bellissima, il cielo limpido e senza nuvole. Si incamminò verso via Grande, giunto in piazza prese per via Cairoli, svoltò in via Santa Giulia e finalmente arrivò in piazza Cavallotti.
Le urla, il brusio di sottofondo, le spinte, bambini che piangono, era questo che lo faceva concentrare. Si avvicinò ad un banco attratto dal colore brillante delle mele esposte con cura maniacale a formare una figura geometrica che non avrebbe saputo definire, ma che raggiungeva la perfezione.
«Amelia, quale prendo?», stava domandando una signora a una donna dietro un banco.
«Dè, son tutte buone che discorsi!» rispose sbrigativamente Amelia, ansiosa di spostare il discorso su un altro argomento. «Ma l’hai sentita l’ultima?», aggiunse mentre la cliente abituale stava cercando di capire se fossero meglio le gold o le renette.
«No, o cos’è successo?», disse la signora mentre afferrava una gold per sentirne la consistenza.
«Dé, Sharon ha scoperto che il suo marito la tradiva con la sua migliore amica! Chiamala amica!», disse Amelia con l’aria soddisfatta di chi sa sempre le cose prima degli altri.
«No… Davvero? Ma sei sicura? A te chi te l’ha detto?», domandò la cliente pensando che c’era sempre da fare la tara su quello che diceva la donna.
«Te non ti preoccupare, lo so per certo, la fonte è sicura», disse Amelia evitando di rispondere.
«Poverina! C’ha una sfortuna addosso quella donna…», stava ribattendo l’altra.
L’ispettore si allontanò chiedendosi se era un’usanza solo di Livorno di chiamare le persone con nomi da soap opera oppure se questa tradizione fosse diffusa anche da qualche altra parte in Italia.
Fece ancora qualche giro tra i banchi, entrò al mercato coperto e dette un’occhiata ai pesci esposti in bella vista sui cubetti di ghiaccio. Tutto quel ben di Dio gli fece venire fame, chiamò Cambini col cellulare e gli dette appuntamento davanti al porto. Oggi offriva lui.

Claudia stava finendo l’ultima visita della giornata. Era stanca, non vedeva l’ora di andare a casa per immergersi nella vasca e stare un po’ lì, così, senza far nulla, senza pensare a nulla.
«Signora Maria, non si deve preoccupare. Sta andando tutto benissimo, è normale che questo mese abbia perso solo 700 gr. Il salto grosso si vede all’inizio poi il corpo si abitua piano piano e la perdita di peso è diluita nel tempo. Ciò ci permette di arrivare al nostro obiettivo in un tempo più lungo ma sicuramente mantenendo un’ottima salute».
La signora sorrise anche se le si leggeva chiaro in faccia che avrebbe voluto che la dottoressa avesse una bacchetta magica al posto dello stetoscopio.
Claudia accompagnò la signora alla porta e la salutò dandole appuntamento al mese successivo. Tornò verso la scrivania per radunare le sue cose quando il cellulare cominciò a suonare.
«Pronto!», rispose senza riconoscere il numero.
«Dottoressa buonasera, sono l’ispettore Vannucci», disse la voce dall’altro capo del filo.
«Salve ispettore, come va? Ci sono novità?» chiese Claudia sollevata di scoprire di non dover andare a fare una visita urgente.
«Mi chiedevo se potesse venire a fare un salto nel mio ufficio qui in Questura» disse l’ispettore.
«Ora?» replicò d’istinto Claudia.
«Sì, sarebbe abbastanza urgente. Le spiego tutto quando arriva». Il tono di Vannucci non ammetteva repliche.
«Va bene, se la mette in questi termini. Sono allo studio di via Grande, arrivo in dieci minuti».
Allarmata, Claudia radunò in fretta le sue cose e si avviò verso la Questura. Erano quasi le otto, che cosa ci poteva essere di così urgente da non poter aspettare il giorno dopo?
Fece la strada quasi di corsa, infilò il portone della Questura, salì le scale, girò a destra e bussò alla porta dell’ufficio di Vannucci.
«Avanti!». Mise la mano tremante sulla maniglia l’abbassò e aprì la porta.
Elena era seduta sulla sedia di fronte alla scrivania di Vannucci, il Cambini era accanto all’ispettore dall’altra parte.
«Hanno chiamato anche te?», esordì Claudia entrando nella stanza, sollevata di trovare anche l’amica.
Elena abbassò lo sguardo ma Claudia non ci fece caso, si diresse verso la sedia che l’ispettore le stava indicando e chiese: «Ma insomma, che cosa succede?».
«Abbiamo scoperto chi le ha mandato quelle lettere», le disse l’ispettore.
«Ah, meno male, E chi era? L’avete arrestato? Perché me le ha mandate?», disse Claudia tutto di un fiato. Poi si rivolse ad Elena: «E te lo sapevi? Perché non me lo hai detto prima? Mi avete fatto prendere un colpo con tutta questa sceneggiata!».
Sul volto di Elena cominciarono a sgorgare le prime lacrime, silenziose ma copiose.
«Elena che hai? Perché piangi?», Claudia cominciava a non poterne più di questa situazione.
«Ingegner Tanini, vuole parlare lei o preferisce che lo faccia io?», intervenne il Vannucci.
«Ma cosa state dicendo? Insomma, qualcuno mi vuole spiegare una buona volta che cosa succede?».
«Dottoressa, l’autore delle lettere anonime è la sua amica. Elena Tanini», disse il sovrintendente Cambini.
Il bagno caldo che aveva desiderato fino a qualche minuto prima si trasformò in una doccia gelata, scaricatale addosso così, a bruciapelo. Claudia era talmente stupita che non si rendeva conto se aveva capito bene o se avesse frainteso le parole del sovrintendente. Gettò uno sguardo smarrito in direzione di Elena, che a sua volta non riusciva a far altro che piangere.
L’ispettore allora le spiegò che, dopo aver fatto analizzare le lettere, le indagini si erano indirizzate verso chi, tra le persone di cui aveva fornito i nominativi, andava allo stadio o comunque nutriva una forte passione per il Livorno. Tra queste persone c’era anche la sua amica, ma la cosa sarebbe passata inosservata se non avessero scoperto che abitava dietro piazza Cavour e quindi molto vicina alle Poste Centrali tanto da poter approfittare di consegnare una lettera mentre pagava una bolletta. Inoltre, dalle indagini condotte tra gli amici in comune delle due, era emerso un ritratto di Elena abbastanza inquietante. Tutti la dipingevano come una grande amica di Claudia, sempre presente, specie nei momenti di bisogno dell’amica, sempre pronta a dare consigli o a consolare quando all’altra andava male qualcosa. Ma allo stesso tempo veniva descritta come una persona fortemente gelosa nei confronti di Claudia, della sua bellezza, del suo innato fascino che tanto attraeva gli uomini. Come Marco ad esempio, l’amico comune del corso di yoga di cui Elena si era perdutamente innamorata, ma che era attratto da Claudia.
Claudia ascoltava la spiegazione dell’ispettore facendo molta fatica a seguire la logica di quei discorsi. Possibile che non si fosse mai accorta di nulla?
L’ispettore proseguì raccontando che ad un certo punto avevano deciso di farla seguire fino a che non l’avevano vista dirigersi verso l’ufficio postale di via Cairoli con una lettera da imbucare. Appena consegnata, era stata fermata ed era stata intercettata la lettera, la quarta della serie con un contenuto simile alle precedenti, la stessa modalità di scrittura e l’indirizzo di Claudia scritto, come le altre volte, al computer.
Messa alle strette Elena aveva finito per confessare tutto: dalla gelosia che provava fin da quando ragazze andavano a scuola insieme, all’invidia per il successo professionale e personale di Claudia, alla soddisfazione che aveva provato quando l’amica le aveva riferito che si sarebbe separata. Un attaccamento morboso il suo, che era riuscita sapientemente a mascherare in tutti questi anni, recitando la parte dell’amica del cuore. Fino a quando avevano conosciuto Marco, o meglio fino a quando lei aveva conosciuto Marco. Un tipo simpatico, carino, educato, che si era sempre mostrato gentile nei suoi confronti. Qualche volta erano anche andati a cena fuori insieme loro due soli e lei si era illusa che potesse nascere qualcosa di più da quella che lui invece interpretava come pura e semplice amicizia. Poi si era aggiunta anche Claudia al corso e lui era cambiato. Le sue attenzioni ora erano rivolte solo a Claudia, Elena non esisteva più.
Allora aveva ideato lo stratagemma delle lettere, ma in realtà nemmeno lei sapeva dove sarebbe andata a finire. Aveva iniziato prima per gioco, per spaventarla un po’, poi la cosa si era gonfiata più del dovuto e l’ispettore Vannucci aveva cominciato ad indagare sul serio. A quel punto non si poteva più fermare, ma giurava di non aver mai avuto intenzione di farle del male.
Claudia ascoltò tutto il racconto con aria sbalordita fissando l’amica che non aveva il coraggio di alzare la testa.
Alla fine l’ispettore le disse che se voleva poteva anche ritirare la denuncia altrimenti le cose sarebbero andate avanti e la giustizia avrebbe seguito il suo corso.
Claudia si alzò, quasi fosse in trance e disse: “Mi dica dove devo firmare, ritiro la denuncia”.
L’ispettore le indicò uno spazio in fondo a destra di un anonimo modulo. Prese una penna e firmò: «Me ne posso andare?».
«Certo, dottoressa. Vuole che l’accompagniamo a casa», le chiese l’ispettore.
«Non ce n’è bisogno. Grazie, di tutto».
Si alzò, prese la borsa e uscì. Appena fuori dal Palazzo respirò a fondo come se non lo facesse da secoli. Si incamminò verso il parcheggio, aprì lo sportello della sua macchina, infilò dietro il sedile di guida la sua borsa da lavoro, richiuse e si diresse verso il porto.
Aveva bisogno di digerire tutte queste notizie, aveva bisogno di riconciliarsi con il mondo.

Cristiana Belcari