domenica 14 ottobre 2007

Nato di Dolore e Rabbia

I Malhim avvinghiati a lui parvero esitare. Fu abbastanza per eccitarlo. Li aggredì senza pesarci due volte, anzi senza pensare affatto. Fu pura distruzione. L'atto stesso divenuto spirito e parte integrante della realtà. Distruzione.
Non si fermò nemmeno a bilanciare la presa sulle lame Siyr binate. Nemmeno dopo che il primo gruppetto di opponenti fu annientato. Abbadon roteò vorticosamente verso il fitto dei nemici, fendendo aria con il suo odio primordiale. Proprio dove lo stavano aspettando, proprio dove il nemico era più forte. Urlava e rideva come un bambino impazzito.
Gli arti delle macchine da guerra celestiali, caduti a terra come grano durante la mietitura. Maledisse il proprio spirito per la bellezza di quella distruzione. Cadendo a terra i moncherini straziati ed i loro corpi componevano il glifo in Enochiano corrispondente al concetto di Odio. Non riusciva ad essere semplice impulso nemmeno in quel momento. Imprecò. Non riusciva a privarsi della ricerca della Bellezza per quanto furiosamente provasse. Colpì e uccise ancora e ancora fino a quando non vi furono più nemici o amici attorno a lui e niente altro da disegnare con i loro resti.
Ali completamente in fiamme sorsero dalle sue spalle come un vulcano pronto ad eruttare.Del torrione primario su cui aveva appena combattuto non restavano che le macerie, come nel resto della cittadella in rovina. Macerie malate, insozzate con i corpi e le anime consumate nell'odio. Tutto questo non acquietò la sua sete di vendetta e Morte. Dinnanzi a lui gli ultimi fuochi della battaglia, la caduta della sua Capitale, la fortezza interna demolita fino all'ultima pietra nera. Le sue truppe, la sua guardia del corpo, l'intera Legione d'Ebano massacrata. Non era importante quanto lui singolarmente fosse più potente o quanti ne abbattesse. Non faceva in alcun modo la differenza. Per ogni Malhim abbattuto o distrutto, altri dieci arrivavano discendendo dai cieli luminosi. Stupidi e ottusi, continuavano ad arrivare come un oceano impazzito, inarrestabile ed infinito.
La furia di Abbadon aumentò insieme al suo potere. Osservò il Gran Disegno dispiegarsi, minuzioso ed implacabile davanti ai suoi occhi impotenti: no, i suoi cavalieri infernali non venivano distrutti, venivano metodicamente immobilizzati e catturati. A loro non era concessa morte o una onorevole distruzione. La degna fine per un guerriero. No, a loro, Caduti, non era permesso andarsene semplicemente. Paventava una fine ben peggiore. Tutti loro ne erano sempre stati consci ma nessuno nella Legione D'Ebano e tanto meno il loro Principe aveva mai osato anche solo pensarci. Ora era davanti a lui. La sconfitta e la cattura.
I suoi pensieri lo avevano distratto per troppo tempo, un battito di cuore umano o poco più. Attorno a lui, in mezzo a quella distesa di macerie, fuoco e fumi d'inchiostro non vi era nemmeno un Caduto. Soltanto un oceano di mostri celestiali e luminosi. Nessuno di loro poteva guardarlo dietro quelle loro orrende maschere di luce. Ma riusciva a leggerci dentro la bramosia. La contraccambiò. Urlò. Le onde soniche sconvolsero il selciato residuo. E mentre macerie e lava esplosero, la terra stessa si aprì sotto di lui.
Dispiegò le sei ali, che presero fuoco all'istante più ardenti che mai. Il Cielo pianse.
Abbandonò le lame Siyr, assorbendole e conficcandosele dentro gli artigli. Ne assunse direttamente la forza distruttiva. Un dolore persistente gli testimoniò il successo della trasmutazione delle Siyr in artigli, accompagnandolo nella sua crociata di morte. Non voleva metalli estranei nella sua scia di mutilazione e morte. L'aria si infranse, sibilando, torcendosi fino a collassare completamente.
Con tutta la potenza e la disperazione di un principe dannato, Abbadon li caricò. Distruzione e Amore per la stessa, le uniche forze dentro di lui. Consumato ed alimentato da Rabbia e Vendetta.
L'energia delle Siyr, intrappolate nelle sue braccia e nei suoi artigli, lo divorava, da dentro a fuori, ma sua forza era incrementata a dismisura. L'unico modo di affrontare una battaglia impossibile come quella. Alcuni Malhim cessarono di esistere all'impatto con l'Arciduca, una volta vassallo di Lucifero. Per ogni anima consumata la forza vitale di Abbadon veniva indebolita a sua volta. - Un stilla della mia anima per la vostra morte ultima - ecco l'evocazione ossessivamente cantata dal principe demone. Per quanto fosse impossibile anche da concepire, lungo un lento rabbioso respiro apparve del suolo libero attorno all'Arcidiavolo, tanti furono i caduti tra i Malhim. Digrignò i lunghi filari di denti della forma Apocalittica in cui era imprigionato da ore. Respirò fiamme e odio, nutrendosi di entrambi, in un'estasi rapita.
Sui non-volti degli automi celesti apparve il glifo corrispondente al concetto più spregevole per un caduto: Prigione. Abbadon rimase cupamente in attesa fino a quando l'Oceano di Malhim davanti a lui non fu interamente decorato con quella runa. Dalle spaccature del fine marmo decorato, un fiotto di magma delle profondità più recondite del pianeta scaldò gli zoccoli dell'Arciduca, ribollendo senza requie.
Repentino e implacabile Abbadon si scagliò verso il più vicino degli automi, che per quel breve istante parve farsi piccolo e quasi indifeso. Lo afferrò e percepì la marionetta incompleta che stringeva tra gli artigli insanguinati. La scosse. La studiò. La punse. Ci giocò come il giocattolo che sembrava essere. Lo trafisse. Nemmeno un movimento da parte della schiera attorno a lui. Gli strappò gli arti inferiori. Nemmeno un lamento, nemmeno una reazione di vendetta attorno a lui. Gli strappò le mani una alla volta. Le Siyr Celesti caddero a terra inghiottite nel magma, ma le braccia del Malhim vennero consumate lentamente una molecola alla volta, con tutta l'agonia che un Angelo Superiore come Abbadon poteva risvegliare in un corpo tanto resistente. Nessuno urlò, nessuno si mosse. Abbadon lo fece. Colpendo con tutta la veemenza impazzita, il suolo si spaccò in due e si divise. Una tempesta di lava infuriava in mezzo alla schiera celeste che lo circondava, dividendola.
"Nefandezze immonde! Ho dilaniato, mutilato ed umiliato il vostro stupido fratello. L'ho fatto soffrire con una tale arte che anche Lucifero, il Principe Rinnegato, avrebbe pianto... E voi patetici fratellini minorati non avete nemmeno mosso un dito. Nessuno di voi vale anche solo un arto di questo guerriero. Lui sta conoscendo il concetto finale: quello che attende tutti voi! Lui, finalmente, nel suo silenzio ottuso, comprenderà. Ora, proprio in questo istante:Il Dolore..." tuonò l'Arciduca Infernale, incidendo il glifo corrispondente dentro l'anima del Malhim. Senza emettere alcun gemito, la forma straziata cominciò suo malgrado a tremare convulsamente. Tale era il potere di Abbadon, padre e maestro nell'arte delle percezioni superiori. Dolore, ecco cosa era diventato il Malhim. "... Ma questo a voi non basta? Dico proprio a Voi!" il ringhiò divenne più cupo, mentre gli occhi di Abbadon si volsero verso il Cielo. Le schiere di Malhim impassibili non si mossero, completando idealmente lo schema di accerchiamento attorno all'ultimo Caduto rimasto libero nella cittadella. Un virtuosismo sterile ed impassibile. Perfetto e bellissimo. Come solo il Gran Disegno e l'Ineffabile Michele avevano potuto concepire.
"Siete ornati da maschere di Luce. Quale immeritato premio per le vostre ignobili carcasse. Non meritate la Luce. Non l'avete mai scelta. Non l'avete mai amata... né odiata!" gli occhi di Abbadon si chiusero, un sorriso silenzioso dipinto sul suo volto.
"Non vi nasconderete più alla mia vista, macchine spregevoli." e conficcò con la massima forza gli artigli dentro la maschera del Malhim, strappandola dalla carne angelica un brandello alla volta, nella maniera più dolorosa possibile. E per il legame simbiotico delle Siyr dentro di lui, Abbadon stesso attraverso le mani, subì parte di quel dolore. Trasalì, scoprendo ben presto che quella non era una semplice maschera corazzata, ma la cagione stessa del costrutto angelico, prigione e nutrimento stesso della sua anima malforme. Scoprì l'angelo deforme e avvizzito al di là del velo di luce. Si odiò nell'istante in cui la compassione fece capolino nella sua rabbia pura ed incontaminata. Maledisse la sua nascita nell'Amore del Creato e la ripudiò con ardore e passione.
"E' questo, in ultima istanza, che siete... miseri angeli... indegni di portare la fede o il peso della scelta. Incapaci di Cadere.... Voi siete... semplice... Nulla!" e così come spazzò via il concetto stesso dalla sua mente e dal suo cuore, dissolse il volto sfigurato del angelo morente tra le sue braccia. Ma si premurò di allungare nel tempo quel dolore al massimo possibile. Rise, cupamente. Tremò dentro per tutto il male ed la rabbia che era in grado di contenere. Quel giorno, tutte quelle macchine di morte, quegli angeli feriti ne avrebbero goduto. E lui sarebbe caduto sconfitto sì, in catene ma in gloria, marchiando quegli stupidi e miseri giocatoli per sempre.
-Fratelli, quanto siete patetici, vi disprezzo e vi ammonisco. Voi non siete per me pari. Voi non siete Niente.- Pensò freddamente Abbadon, seppellendo questo singolo pensiero nel magma ribollente del suo spirito.
Nell'attimo in cui la Schiera Implacabile si avventò all'unisono contro l'Arcidiavolo, lui attaccò a sua volta. E su tutti i Malhim, l'oceano silenzioso ed inarrestabile che stava abbattendosi su di lui, comparve l'Evocazione in Enochiano "Unione". Ma nella sua infinita perfidia Abbadon non condivise la forza dei suoi attacchi, il suo desiderio di morte. Quello che condivise fu l'unica scintilla di autocoscienza del Malhim prima della propria dipartita. L'autoconsapevolezza della solitudine. Di quanto fosse inerte nei confronti dell'Esistenza, di Abbadon, dei Suoi Fratelli storpi e menomati e soprattutto nei confronti del Creatore. Quella solitudine colpì la schiera dei Malhim nello stesso istante in cui Abbadon fu intrappolato e sconfitto e in un modo completamente nuovo lui nacque come vero Demone. Nel Dolore e nella Rabbia.
Quando Michele posò gli occhi sulla scena, seduto sul suo trono di luce, con orrore misto a disgusto constatò la forza di Abbadon. Tenendo fede al suo nome ovvero "Distruzione", aveva, sebbene sconfitto, annientato l'intera armata preposta alla sua cattura. I volti straziati e senza maschera, di mille fra i più terribili Malhim giacevano scomposti e morenti ai piedi dell'Arciduca Infernale intrappolato. Irrecuperabili. Soli e in preda a rabbia, impotenza e dolore. L'Abisso inghiottì Abbadon, portandosi via insieme a lui, quei rifiuti tanto scomodi alla Schiera Angelica. E anche quella cittadella demoniaca fu purificata dai Caduti. Non rimaneva che Gennhinnom e La Stella del Mattino da conquistare, un piacere che il Primo fra i Sette pregustava da tempo immemore. Abbadon aveva solo stimolato il suo appetito.


Alessandro Sidoti

sabato 13 ottobre 2007

Senza volto

L'orizzonte non era mai stato tanto piatto, sterile e vacuo come quella mattina.
Il pulviscolo e la cenere attorno a lui e soprattutto dentro di lui, lo soffocavano. Il peso della colpa unito alla solitudine rendeva il semplice atto di rialzarsi un supplizio. Ma la Stella del Mattino ciononostante si rialzò. Solo fiamme e devastazioni attorno a lui, suoi figli e figlie.
Non vi era luce, aloni di potere, fierezza, solo una infinita tristezza e, sebbene fosse tanto difficile ammetterlo, un senso di sconfitta totale e definitiva. La condanna doveva arrivare eppure lui si sentiva giudicato da tanto,troppo tempo, senza possibilità di appello alcuno.
Scrutò il cielo mestamente.
In una spirale cadente, una piccola stella ferita cadde dal firmamento. La luce intermittente era ancora fortissima. Troppo forte per un Elohim, e tantomeno per un Caduto. Qualcuno della Schiera Celeste era stato lasciato indietro. Estese la propria percezione, seppure ferito e incapace di osservare con precisione. Gli ci volle soltanto un istante. Capì subito.Appena ebbe piena consapevolezza di cosa stava osservando fu afferrato da un senso di angoscia ed inspiegabilmente da una tenerezza infinita.
Le Catene della Condanna erano rientrate in lui, dentro la fibra stesse della carne angelica. La sua pelle una volta candida ed immacolata erano stata marchiata per sempre. I suoi polsi, le sue mani e le sue Ali portavano lo sfregio e il disprezzo del Volere Ultraterreno. La vendetta di Michele prendeva in forma in quel superbo tatuaggio vivente che era ora mai diventato. Il dolore fisico era certo poca cosa per chi aveva patito nel vedere la propria gente, amati fratelli e amate sorelle, scomparire inghiottiti dal Nulla, ma le sue braccia e le sue Ali erano letteralmente in fiamme. Le catene non erano scomparse ma anzi scavavano in lui un vortice di puro dolore, spirituale e fisico, come memento della sua colpa. Affinché non dimenticasse mai. Quelle carni tatuate gli avrebbero fatto compagnia per sempre, ne era certo. Quando spiccò il volo per raggiungere la meteora appena caduta, sentì uno spasimo. La punizione per usare le abilità Angeliche. Non vi era alcuna sottile ironia in quel tormento, riconobbe la rozza mano di Michele. Ma quel dolore lo definì, gli diede forza. Volare e librarsi nell'aria gli sarebbe davvero costato caro ogni volta, ma proprio per questo lui avrebbe continuato a volare nell'Etere e nella bellezza ferita del Creato. Quasi che staccarsi dal suolo, fosse a tutti gli effetti la sua risposta al Grande Disegno ed al suo Sommo Artista.
"Non sono ancora vuoto. Ho ancora amore e desiderio dentro di me... Ho ancora fede !" annunciò al Cielo con fierezza e umile sdegno. Volò, rapido e sicuro, senza lasciare che né le orribili correnti residue della battaglia né il male causatogli dalle catene deviassero il suo percorso. Un volo delicato ed elegante come solo la Prima Stella del Mattino avrebbe potuto danzare.
Giunse ad una pianura ancora avvolta dalle fiamme. Un solco nella nera terra ampio come il letto di un fiume. Volute di fiumo cinereo ad oscurare il cammino. Quelle rovine era state una delle città minori, un bastione appena al di fuori della sua Gennhinnom.
Nonostante le fiamme oscurassero il cielo, proprio nel punto dell'impatto, ed il calore distorcesse la vista, riuscì ad identificare subito la forte luce intermittente.
Gli occhi si riempirono di lacrime. Comprese subito la causa di quella intermittenza.
La creatura era ferita. La Luce la avvolgeva. Era senza volto.Menomata al di là della capacità di qualunque Elohim di guarirsi. Ma non erano certo state le ferite mortali della battaglia finale o l'impatto, era stato il Volere Superno a ridurlo così. Lucifero pianse al colmo della sua rabbia.
Si avvicinò lentamente, con timido rispetto. Le ferite esterne stavano già rimarginandosi, anche quelle create dalle lame Siyr dei Caduti. La resistenza di quel corpo,seppure di origine angelica, era inconcepibile, ma a quale prezzo era stata ottenuta.
Nelle battaglie precedenti, durante il fallimento del Grande Esperimento e la Distruzione dei Nephilim, aveva abbattuto dei Malhim coadiuvato dalle sue schiere e dalla possente guardia reale di Nazathor. Non li aveva mai realmente guardati da vicino. E in cuore suo aveva sempre sperato fossero semplici ordigni di fattezze vagamente angeliche non diversi dalle lame Siyr, massacratrici di Elohim. Ma l'inganno era durato anche troppo a lungo. Aveva chiuso gli occhi per troppo tempo e l'alone di luce impenetrabile dei Malhim era stata solo una misera scusa. Per troppo tempo aveva scordato il suo amore, e la furia della battaglia l'aveva privato della vista e del coraggio di guardare oltre quella maschera luminosa.
Fissò quello che avrebbe potuto essere un angelo bellissimo. Lo spogliò della luce, intermittente e malata, uno strato dopo l'altro. Fu doloroso e altrettanto necessario. A prima vista ogni Malhim sembrava assolutamente identico, corazzato, con armi, spine e catene e mai un volto da mostrare per nessuno amico o nemico. Per Volere Eterno, erano semplicemente una forma di incarnata Distruzione e niente più. Il loro volto era oscurato da una luce tanto intensa che qualsiasi Elohim era incapace di fissarla troppo a lungo. Questo manto luminoso, anonimo e violento, assisteva il guerriero Malhim in battaglia, rubandogli al contempo coscienza ed individualità. Costruito soltanto per sconfiggere i Caduti. Questa forse la bugia più grande. I Malhim non erano costruiti. No, non erano nemmeno armi superiori, come le Siyr o le corazze infernali. Non erano finimenti delle Fucine della Legione di Ferro. Erano fratelli, esseri viventi e senzienti, torturati dalla nascita. Sorelle incatenate per un singolo solo scopo, sconfiggere la Ribellione, ed umiliare Lucifero ricordandogli quanto male diretto od indiretto aveva recato con le sue scelte. Una intera generazione gettata nell'Abisso prima ancora che l'Abisso stesso fosse creato. Soltanto per lui, si ripeté. i Malhim nascevano torturati e menomati soltanto per punire un solo Angelo Ribelle.
Il dolore crebbe in lui. La creatura devastata lo aveva appena notato. Percepì il suo desiderio di combattere. Il desiderio divenne furia. La furia si tramutò in lucida follia. Il Malhim venne sconvolto da convulsioni fortissime. Lame apocalittiche apparvero nelle sue mani ferite. Saettando vorticosamente attorno a lui senza controllo. Poi improvvisamente, come se qualcosa si fosse spento in lui, si fermò. Una marionetta rotta, nelle mani di un burattinaio che più non si curava di lei. Il Malhim smise di agitarsi, ma solo per qualche momento. Poi con rapita e malata precisione ricominciò la danza della follia, colpendo il nulla senza più fermarsi.
Il Primo tra i caduti urlò silenziosamente, maledicendo ancora una volta la crudeltà del Gran Disegno. Dapprima afferrò le mani possenti della creatura morente. Si ferì nel vano tentativo di arrestare il suo impeto rabbioso, ancora e ancora. A nulla valse la forza fisica. Il Malhim era superiore fisicamente anche in quelle condizioni. Riprovò una seconda volta, aggiunse preghiere e suppliche insieme alla forza. Lo implorò di fermarsi, di ascoltarlo. Lo implorò di lasciarsi curare. A nulla valsero le preghiere.
Chiuse gli occhi. Rilassò il proprio corpo, smettendo di pensare alle ferite insopportabili delle Lame Apocalittiche. Lasciò scorrere via tutta la furia accumulata durante la battaglia finale sopra Gennhinnom, e dopo la sconfitta e la punizione. Non si calmò completamente, tanto era il tormento dentro di lui, ma riuscì a vedere la propria anima alla fine del tunnel della disperazione. Riaprì gli occhi mentre le prime stelle del mattino, le piccole sorelline del creato, facevano capolino su un'alba tanto bella quanto terribile.
"Fratello mio..." pronunciò quelle parole con tutto l'amore di cui la sua voce fosse capace. Avvicinò non le braccia, né il suo corpo, ma solo il volto. Inerme. Rilassato. Vulnerabile quanto un bimbo verso la propria madre.
Il Malhim reagì fulmineamente, mal interpretandolo come gesto di sfida. Il suo spazio era stato violato. Sebbene mutilato nei sensi era ancora in grado di percepire l'aura della Stella del Mattino. La luce divenne ancora più fulgida e mostruosa, intermittente e orribile. Una Lama Apocalittica si conficcò nel collo di Lucifero. Il dolore non impressionò il Grande Caduto. Dentro di lui solo la consapevolezza che l'Amore e nulla altro era necessario per avvicinarsi vivo a lui.
"Non ci siamo dimenticati di te, amato Fratello..." continuò il Portatore di Luce, rivestendo le ultime parole di empatia. La seconda scarica di colpi lanciati dal Malhim fu impercettibilmente più lenta della prima. Le spalle del Primo Caduto vennero ferite gravemente in più punti e anche le Ali subirono un fato non diverso. L'autocontrollo fu difficile questa volta. La voglia di ritrarsi e di combattere crebbe in Lucifero. Ma ancora una volta si trattenne, intuendo dove l'atrocità del Disegno Celeste risiedeva. Il meccanismo stesso alla base del concetto di Malhim. Nato per odiare e ancora di più nato per farsi odiare. Un motore infinito, che si rinnovava per sempre, virtuoso e atroce. Capace di alimentare intere schiere di mostri mutilati in grado di suscitare tale odio, paura da autoalimentarsi fino alla fine dei Tempo stesso.
Baciò il Malhim. Dapprima non riuscì a discernere i tratti. La Luce Divina lo avvolgeva come una maschera. Ma l'impulso intermittente era sempre più debole a causa dei danni subiti. Qualcosa, malgrado tutto, stava facendo breccia nella mente del suppliziato. Lucifero era giunto più vicino ad un Malhim di qualsiasi altro Caduto. Ed era ancora vivo. Certo le sue ferite bruciavano come se fossero avvolte dalle fiamme, ma la sua personale scommessa era in un certo senso vinta. Gli bastò osservare quel volto sfregiato, imprigionato nella stessa armatura. Fu la visione stessa di quello che veramente era un Malhim a colpire la Stella del Mattino.
Non trattenne oltre l'odio dentro di sé. Per la prima volta, una rabbia mille volte superiore a quella dell'Arciduca Infernale Belial ed ai suoi fratelli lo sconvolse. Che cosa aveva permesso Michele. Che cosa mai aveva potuto accecare la Schiera Lealista fino a punto. Lasciare che il Volere Superiore storpiasse una creatura completa e splendida come quella, in un ordigno di vendetta. La guerra, la vittoria, la supremazia non valevano tanto.
Non vi fu spazio per le lacrime o per l'amore questa volta. L'odio riempì il cuore del Primo fra Tutti. Un odio intenso e viscerale. Il senso di impotenza si trasformò in bramosia di vendetta. E cadde ancora una volta. Cadde nei propri principi. Cadde nella propria Fede verso la pace, l'amore e l'Uomo.
Il Malhim reagì all'istante. Brandendo nuovamente le lame verso Lucifero colpì con la massima forza di cui era capace.
La reazione della Stella del Mattino, in preda alla furia primordiale, fu altrettanto feroce e brutale. Afferrò entrambe le braccia corazzate del abominio celeste e le spezzò senza nemmeno guardarlo. Con uno schianto secco entrambe le lame assassine finirono a terra.
Il Malhim non urlò. Il Malhim non pianse. Il Malhim non soffrì. Semplicemente smise di attaccare con le braccia. Il corpo stesso divenne un'arma. I pezzi di armatura graffettati alla stessa carne angelica divennero spunzoni, punte, uncini. Le stesse lame partivano da dentro il Malhim, ferendolo a sua volta, con l'unico scopo di permettergli quell'ultimo disperato attacco suicida. Nella battaglia sopra Gennhinnom era successo molte volte. Nessun Malhim lasciava il campo dell'esistenza senza portarsi via almeno un singolo Caduto con se. Nessun Malhim, mai, era stato catturato vivo. Mai. La creatura menomata ed in fin di vita si catapultò con quanta energia le era rimasta verso la Prima Stella , senza emettere nemmeno un suono, senza il canto dell'anima che ogni Elohim ininterrottamente intesseva per il proprio Creatore, come atto di estremo amore.
"Distruzione". Lesse per la prima volta il carattere in Enochian sulla fronte del guerriero suicida. Lesse e comprese finalmente la chiave. Il Tempo si fermò col fiato sospeso. Lucifero rallentò l'attacco, rallentò lo stesso fluire degli eventi.
Le lame Siyr della Stella del Mattino, scomparvero ritornando nel Vuoto da cui erano state evocate. Gli servivano le mani libere. Ma, ancora di più, il cuore libero. Fu molto più difficile questa volta. Le ferite urlavano vendetta. La sua rabbia urlava vendetta, non certo verso il Malhim ma verso tutti gli Elohim Lealisti, e verso il Gran Disegno. Lì perdonò, suo malgrado, a malincuore, li perdonò e perdonò anche se stesso per aver causato tutto questo. La rabbia e la vendetta scomparvero. Fu un singolo istante, ma bastò al Principe Esiliato. Toccò la fronte del Malhim e con un gesto paterno, sfiorò la runa enochian della Distruzione. Gentilmente la cancellò. I sigilli sulla bocca del Malhim questa volta non lo trattennero più. La museruola odiosa incastonata nella sua bocca cadde a terra. Il Malhim urlò oltre la maschera di metallo celeste, oltre i limiti che gli erano stati imposti. Urlò il proprio dolore, la propria impotenza, il proprio desiderio di vendetta. E alla fine quando tutto venne espluso devastando la valle circostante, esplosa per la sola furia di quelle parole, al Elohim riportato in vita, rimase un ultimo disperato lamento. Il bisogno di amore e di amare il Creatore. Ecco il motore stesso del Malhim. Era stato privato completamente della capacità di lodare, amare e cantare per il Creatore stesso. La pazzia alimentava la furia cieca, la deprivazione completa di quel amore e della possibilità di esprimerlo in qualsiasi modo era la cagione stessa di quell'arma immonda conosciuta ai Caduti e ai Lealisti come Malhim.
Lucifero non curante delle ferite di entrambi abbracciò l'ordigno che una volta era stato un possente Elohim. Lo abbracciò con rabbia, con amore, con ardore, con dolore. L'abbraccio fu brevissimo, quasi un singolo attimo, rubato al continuum.
Successe.
Il Malhim riprese a pensare da solo. Non più un'arma contro la schiera dei Caduti. Non più un guerriero lobotomizzato nella sua passione più pura. Ma di nuovo un essere senziente incapace forse di scegliere ma capace di consapevolezza e devozione. Vivo e completamente a pezzi. La bocca del angelo deforme spezzò i legami, il metallo di Ur delle fucine celesti, la sua voce il suo canto roco, perforò l'aria aspra e tersa della prima mattina. Arrivò fino al cielo e ancora più su sino ai Troni e alle Potenze, e ancora di più sino ai Sette, fino all'Arcangelo Michele. E ricadendo al suolo tentò in vano di raggiungere anche i meandri dell'Abisso. Lucifero percepì che la vita del angelo stava volgendo al termine. Il ritorno alla vita gli era costato la stessa. Ed era solo tormento quello che rimaneva in quegli ultimi istanti di esistenza.
Veloce più del suo stesso pensiero ma così lento per una anima tanto dolorante, il Primo Caduto afferrò le lame Apocalittiche dai moncherini a terra.
"Non ti abbiamo mai dimenticato... Idshael, mai nato della Prima Casa dell'Alba... e mai lo faremo, dolce fratello ritrovato e ancora una volta perduto" le parole uscirono dalla mente di Lucifero, tristi come le macerie di Gennhinnom.
Idshael, si volse un'ultima volta verso la Stella del Mattino, mentre le lame divoravano finalmente le sue carni evocate e potenziate oltre l'immaginabile. Sorrise, pianse e visse un lungo singolo istante di vita autonoma. Libero dalle catene. Capace di parlare e di pensare e di amare anche solo una volta il suo adorato Creatore. In un finale di luce, si dissolse nell'Etere, raggiungendo le Sfere Superiori. A nessun Malhim veniva concesso il ritorno nei Cieli Superni, Idshael era a tutti gli effetti il primo. Lucifero morì con lui. Ma non c'era alcun modo di salvarlo. Entrambi ne erano consci fin dal momento stesso in cui era stato liberato. Un Malhim libero cessava semplicemente di esistere fra mille tormenti. Distruggerlo era forse l'unico atto realmente misericordioso.
La Luce scaturita dalla morte del Malhim risplendette sulla dannazione della Stella del Mattino, sulle macerie e sulla terra devastata attorno a loro. Fu una bella luce, calda e sincera, triste ed orribile. Raccontava della dipartita di una arma e della salvazione di una anima incompleta. E per un Angelo dell'Alba perduto e condannato a vagare sulla terra fino alla fine dei tempi, un altro poteva innaturalmente fare ritorno a casa.
Lucifero sentì l'Abisso farsi un ciottolo di sabbia più vicino. Lo agognò ancora una volta. Bramò prendere il posto del suo popolo costretto in ceppi di puro Nulla. Il dolore era insopportabile, nonostante tutto. I suoi fratelli irrimediabilmente dannati. Ma la nuova battaglia, senza eserciti celesti, era appena cominciata. Una molto più lunga e dolorosa, ma soprattutto molto più solitaria e cupa. Ed era cominciata proprio dentro di lui.
Alzò lo sguardo in tempo per vedere una stella del firmamento, fulgida e splendida questa volta, scendere davanti a lui.
In tutta la sua impersonale bellezza il Messaggero, conosciuto una volta come Gabriele, carezzava l'aria avvolto dal fuoco e dalla luce. Il suo viso era completamente inumano e la espressione di una insolita indifferenza. Fece un accenno di inchino. I ceppi e le catene della caduta Gennhinnom tatuate fuoriuscirono dalle carni del Primo fra i Caduti, costringendolo nuovamente a terra, inerme ed impotente.
Il Messaggio era giunto con le ultime disposizioni per la sua Condanna. E ancora peggio, con esso, la vista del dolce Gabriele ridotto ad un semplice messaggero impersonale e meccanico. Michele aveva davvero sorpassato se stesso questa volta.
"Parla Messaggero, che una volta fosti l'Ineffabile Gabriele!" ringhiò verso il cielo Lucifero.

sabato 15 settembre 2007

Vino Veritas

Radici di secoli
in terra fertile risalgono,
si inerpicano
avvolgendosi in abbracci di pigne,
frutto e raccolta
di mani forti,
piene di storia e fatica,
colme d'amore.

Notti insonni e cicli lunari
fermentano un futuro incerto,
fatto di preghiere,
di occhi attenti
di esperienza sudata,
di dedizione e volontà.

In loro onore
un nettare rosso e rubino,
ambrato e dorato;
cullato in calici di cristallo
inebria l'anima,
riscalda i cuori,
salda amicizie e amori.

Roberta Colombini

Amare

Nell'immobilità degli occhi,
dentro cuori aridi
nella sordità del quotidiano,
camminiamo ignari, di noi
della scintilla divina.
Sospesi nella notte del mondo
come i cercatori d'oro
cerchiamo una pepita d'amore:
scendendo
nell'oscurità degli abissi dell'anima,
nascondendoci
dietro le ombre dei nostri sentimenti.

Riconoscersi,
anche nella diversità
anche nella precarietà dell'esistenza.
Carezzare,
l'altro
il diverso
il nostro fratello.
Risalire
per vedere oltre
per sentire dentro
per amare fuori

come fratelli.

Roberta Colombini

Imprigionata

Imprigionata
a stento respiro un'aria che stringe alla gola,
è un cappio
impalpabile, evanescente,
soffoca gli aneliti
sopprime le speranze.
Di me carnefice,
preparo con cura i dettagli
ricamo i tempi,
per non sfuggire moltiplico le trame
annodo con vigore i lacci del mio esistere.
Preda per bisogno,
per amore.

Roberta Colombini

giovedì 13 settembre 2007

Cerchio di Morte

La Luna piena sorse dal cuore nero del bosco.Una bruma malevola e spessa come una coltre di cenere oscurava i lupi.L'intero branco era raccolto attorno alla Pietra Lunare. Ad uno ad uno gli alpha radunarono i riottosi. Alcuni degli omega vennero letteralmente fatti a pezzi dai capi branco senza pietà, solo per aver ritardato lo schieramento. Non era il momento di indugiare o rallentare il passo dei branchi prima della Caccia. Non c'erano appelli, solo la punizione istantanea. Quella notte loro non erano semplici predatori, ma furie nere rubate al lato malvagio della notte.Fu proprio quanto tutti pensarono che il raggruppamento fosse ultimato che arrivò. Il rumore del passo dei suoi artigli che masticavano il suolo umido del bosco, tuonava imperioso. Un ululato fortissimo annunciò a tutti gli altri la sua venuta. Senza aspettare cenni di risposta saltò da un lato all'alto delle rocce che intersecavano la stretta valle. Atterrò sopra il proprio alpha, preso in contropiede. Le sue fauci si serrarono attorno al suo massiccio collo. Fu solo un istante. Le ossa si spezzarono. Cadde morto prima di toccare terra. Digrignò i denti insanguinati lasciando colare il sangue sul suo manto nero. Chiuse gli occhi. Questa volta il suo ululato, molto più acuto del precedente, fece girare tutti i lupi assembrati per l'attacco. Vedere uno degli alpha fatto a brandelli in un solo colpo, impressionò molti fra di loro.Il resto del suo branco infuriato e atterrito allo stesso tempo si girò per fronteggiarlo. Bastò un solo sguardo ed il semplice denudare le zanne a fugare ogni ulteriore reazione. Era diventato di fatto il nuovo alpha, senza che nessun altro potesse o volesse realmente contestare.Strinse a se i compagni. Morse più volte le code dei più lenti. E quando uno di loro rimase indietro lo azzannò al torso. Lo schianto della cassa toracica fu immediato quanto secco. Il corpo rotolò lungo il budello di pietra e notte. Nessuno altro si fermò, troppa era la paura di finire come i primi due malcapitati. Un sorriso freddo come la notte lo accompagnava, sebbene non avesse una bocca per averlo. La morte correva affianco a lui. La portava dentro al petto, verso quell'Uomo che tanto aveva imparato ad odiare. Nemmeno i suoi fratelli dovevano osare rallentarlo in quel momento.Condusse il suo branco direttamente nel centro dell'insediamento umano, sprezzante per il pericolo e altrettanto avventato. Tutti gli altri erano diretti agli animali da allevamento e alle stalle. L'assalto coordinato funzionò. Il macello degli animali fu completato velocemente. Non si fermò nemmeno per udirne i risultati. La sua furia era cresciuta nelle ultime stagioni fino a divorarlo dentro. Da molto tempo lui non era più un semplice lupo, ma un demone della notte che si vestiva con la pelle dei lupi. Da semplice omega era assurto via via sempre più in alto nei ranghi del suo branco. Aveva imparato ad uccidere. Aveva imparato a godere della caccia e della morte. Solo quelsapore di sangue fra le zanne affilate, dava ormai senso alla vita. Non si era più fermato. La Caccia di quella notte avrebbe soddisfatto la sua sete di morte. Avrebbe ucciso personalmente tutti i membri del suo branco se solo non gli avessero ubbidito all'unisono. Per i deboli, la fredda notte eterna e i vermi. A lui interessava solo una violenta vendetta. Tutto il sangue che la Madre Terra potesse bere, sangue umano.Le tane posticce degli uomini erano tanto brutte quanto solide. Si spinse con tutti loro in mezzo a quelle più piccole.Alcuni cacciatori ancora indeboliti e rammolliti dal sonno, privi delle armi più pericolose, gli si avventarono contro erraticamente. Caddero tutti a terra sbranati nel loro primo assalto. Nemmeno un solo membro del branco mancò la gola di quelle creature pallide, prive di pelo nella maggior parte del corpo. Le loro armi caddero da dita ormai inerti. Gli umani morenti a terra.Il branco spinto dalla sua furia proseguì fino al centro dell'insediamento. I cacciatori che gli vennero incontro erano decisamente più preparati. Alcune trappole scattarono falcidiando due lupi del branco. Disprezzò la loro debolezza, mentre li vide cadere nelle stupide trappole acuminate. Li vide contorcersi e gemere proprio come dei cuccioli, indegni delle zanne e degli artigli che la Luna gli aveva donato. Saltarono l'ostacolo e la fossa dentata, atterrando proprio in mezzo ai cacciatori adulti. Questa volta il combattimento durò abbastanza a lungo da soddisfarlo. Senza fermarsi, tranciò i tendini dei primi due uomini, rendendoli incapaci di reagire e divorò il loro volto. Aveva imparato l'effetto che aveva su i molli umani. Colti dal terrore per lo sfregio mortale, la maggior parte di loro cadeva in uno stato di panico, anche quelli non feriti. Un altro lupo cadde sotto i colpi ripetuti di un piccolo gruppetto di cacciatori. Ma quello fu quanto. Il resto del branco si radunò e circondò i superstiti. Molti di loro sanguinavano copiosamente inebriandolo ancora di più. Al suo comando , come un solo artiglio colpirono. Solo qualche ferita superficiale e tutto quello che rimase di quei guerrieri fu solo cibo per i corvi della foresta.Ululò con quanto fiato aveva in gola. La tana del capo branco umano era vicina. Sentiva quell'odore odioso. Sentiva una traccia ben distinta. Accelerò il passo, gli altri lupi persero lo persero , incapaci di correre quanto lui. Sebbene spronati dalla ferocia della caccia e dalla paura di finire macellati dal loro nuovo alpha, tutto quello che rimase al resto del brancò fu inseguire il proprio capo. Si fermò a ringhiargli, un brevissimo istante e poi scomparve caricando ancora più in fretta fino al varco aperto nella struttura. Il sibilo letale nell'aria annunciò la fine dei compagni rimasti dietro. Punte acuminate. Caddero morti colti dal tormento dei veleni umani. Deboli ed inutili. Ma avevano servito allo scopo. Era giunto dove era predestinato a colpire.L'odore di uomo era ancora più vicino. Balzò dentro la tana, senza nemmeno rallentare.La trappola scattò ma lui fu veloce. L morsa, capace di tranciare le zampe di orso adulto, lo mancò di un singolo respiro. Digrignò i denti spostandosi celermente dentro la prima stanza. Un cacciatore anziano, pieno di cicatrici, lo aspettava a piè fermo. La lama che aveva in mano aveva l'odore di molti, troppi lupi abbattuti. Caricò lateralmente l'aggressore sbilanciandolo grazie alla sua velocità superiore. La lancia saettò verso il suo fianco con perizia. Fu in quel momento che si ritrovò vicino al vecchio uomo coperto di cicatrici. Ma non più su quattro zampe. Senza stupirsi più di tanto erano soltanto due le zampe su cui si reggeva. La gola del veterano aperta dai suoi artigli. Diventati ora tanto grossa da rivaleggiare con le armi umane. Dentro di lui, l'istinto compensava per tutte le sue domande inespresse e senza risposta. Una forma antropomorfa più efficiente per combattere in quegli spazi angusti, quali le tane umane. Forza e velocità accresciute, soltanto la sua furia era rimasta inalterata, tanta era la brama di sangue quella notte. Quella trasformazione era naturale, glielo urlava il suo sangue.Sfondò la barriera legnosa che divideva il locale esterno da quello interno. Lo schiantò impressionò anche lui. Le schegge esplosero dentro ferendo e distraendo gli umani presenti.Localizzò subito il suo nemico. Non aspettò. Non ululò. Non lo guardò. Le sue narici e il suo olfatto fu tutto quello che occorse per centrare la sua corsa perfettamente verso le gambe del capo branco degli umani. Al collo aveva ancora i suoi immondi trofei, le zanne dei suoi compagni uccisi. Riconobbe l'odore, la forma. L'odio lo riempì fino in fondo e lui lo riversò contro il suo nemico. Fu abbastanza. Le fragili gambe umane si spezzarono come grano nella mietitura. Accelerò ancora. Raggiunse la gola e gliela tranciò all'istante, ma senza affondare troppo gli artigli, non voleva che finisse tutto troppo presto. Il rumore e il gorgoglio di morte lo deliziò. Si girò a fronteggiare gli altri nella stanza. Non doveva lasciare nessuno in vita. Lo doveva al suo vecchio branco e ai lupi del suo branco morti per permettergli di entrare lì dentro. Si appiattì al suolo, talmente basso da fondersi con la linea del pavimento. Il suo stomaco brontolò, producendo un suono tanto ferale da imprigionare ogni altro uomo della tana innaturale nella paura delle sue fauci. Avanzò con letale circospezione, odiando ogni passo fatto in quel luogo disgustoso e finto.Un'ultima stanza lo divideva dalla sua vendetta. Percorse le ultime assi di legno morto, con una dolcezza e una disperazione infinite.I suoi istinti urlavano dentro di lui. Li dimenticò. Dimenticò quello che era. Dimenticò che si era appena trasformato in qualcosa di più.Entrò nella stanza debolmente illuminata nella vana speranza di fermare la fiera nera.Non fu un ululato quello lanciò appena entrato, ma un ruggito secco e brevissimo, ma tanto gutturale da fare vibrare le sue stesse zanne in orrore e gioia.Un sibilo acido tagliò l'aria a pochi passi da lui. Una lancia acuminata e avvelenata lo colpì dall'angolo cieco destro. Il suo nemico aveva assaggiato le sue carni per prima. Un uomo basso, per niente impressionante, quasi deludente per il suo sguardo debole, eppure tanto pericoloso. La lama penetrò le carni troppo agilmente. Non importava. Non era lì per pensare a se stesso e ne a quel lucore di tipo lunare sprigionato dall'arpione conficcato nel suo costato. Il suo scatto fu sensuale quanto irresistibile. Si girò fluidamente nonostante il dolore. O i suoi artigli saettarono verso il petto del piccolo uomo tarchiato e con qualche banale ciuffo di pelame sul volto. Scie cremisi si dipinsero sui vestiti del capo dei cacciatori. Nello stesso tempo il cacciatore accennò a rigirare l'amo di metallo lunare nelle sue viscere, ma senza nemmeno fermarsi a sanguinare, girò e spezzo uno dei sui miseri polsi. Gli occhi dell'umano danzarono nel nulla, all'indietro, mentre perse coscienza, colpendo il suolo con un suono sordo, quasi buffo.La sua furia si scatenò. Avrebbe voluto danzare con la Luna. Avrebbe voluto risorgerlo ancora una volta. Perdere l'intero branco ancora una volta, solo per poterlo finalmente uccidere ancora e ancora. Ululò. Devastò un muro fatto di pietra grazie alla potenza innata della sua nuova trasformazione. Non si curò della ferita nel suo petto che si allargava e delle viscere sempre più sconvolte dall'amo di quello strano metallo bruciante.Un pianto sommesso attirò i suoi istinti di caccia. Lo scatto con cui si voltò fu tale che distrusse uno degli inconcepibili strutture fatte di legno morto nella stanza, incomprensibili e ingombranti.Uno sguardo tanto acuminato quanto la lancia del capo dei cacciatori, fu tutto quello che il suo istinto percepì. Una giovane donna, vestita della pelliccia della sua gente. Non per vezzo, ma per l'irrigidirsi delle stagioni. Poco importava. Il cerchio si stava per compiere. Avrebbe distrutto ogni traccia del suo nemico e l'intera linea di sangue con lui sarebbe perita. Il suo volere di morte ne sarebbe stata l'unica cagione. Quella notte, la sua vita aveva quel solo scopo. Pregustò il nuovo bagno di sangue.La giovane femmina umana avanzò verso di lui. Avanzò come nessuno dei cacciatori aveva fatto fino a quel momento. Gli occhi infilzati nei suoi come tizzoni ardenti. Non aveva paura. Non aveva odio. Lo stupì, lo sconvolse. Dentro quella giovane mortale, c'era molto più del Lupo che in tutto il resto della sua razza. Avanzò senza curarsi del sangue che stava calpestandoSi fronteggiarono nel centro della piccola stanza. All'esterno rumori di lotta. I sopravvissuti dei cacciatori cercavano in vano di raggiungere il loro capo, credendolo ancora in vita. Conosceva la loro vigliaccheria. Aveva distrutto l'esile soglia di confine col mondo esterno senza problemi. Avrebbe trattenuto gli ultimi assassini fino al completamento della vendetta. Tornò alla bambina umana troppo cresciuta.Ruggì contro il suo volto. Le zanne la ferirono, tanto erano vicini. Ghermì le sue spalle ferendole. Nonostante il dolore acuto, la donna, bimba nelle vesti di adulta, si trattenne e non svenne. Anzi i suoi occhi si conficcarono ancora di più forte nei suoi. Quello sguardo lo ipnotizzava in maniera completamente nuova. La lasciò avvicinare. Passo dopo passo fino a poter sentire il suo alito contro il proprio. Morte contro vita, freddo gelido contro calore e disperazione.Sembrò una carezza, non lo era. Le piccole ma forti mani della esile donna afferrarono il legno dell'arpione. Lui le intimò, le ordinò, di cessare il suo folle tentativo. Avrebbe potuto divellere le sue membra con un solo gesto veloce, tanta era la differenza di forza. Ululò contro il suo orecchio sinistro, i capelli fulvi scapparono dal volto della bambina cresciuta come impazziti. Ma lei imperterrita continuò. Incredulo e stupefatto da se stesso, nemmeno lui fece nulla. L'arpione scintillante venne abilmente estratto dalle sue carni, con un solo gesto. Al contatto di quel metallo biancastro, la sua pelle e le sue ossa parevano sciogliersi come al disgelo primaverile, il dolore quasi insopportabile.L'aggredì. Gli artigli distrussero la pelliccia immonda che copriva l'esile femmine umana. Morsero la sua carne scoprirono il suo volto, le sue spalle e il suo petto. La donna non si ritrasse nemmeno di un passò ma lo fissò ancora. Lo sguardo era indecifrabile. Quel gesto stesso, incomprensibile. Ma comprese quando i suoi occhi rivelarono le ferite sul petto e sull'addome. La giovane femmina era stata ferita in profondità. Erano stati i suoi artigli e le sue zanne, lo capiva dal modo feroce ed efficiente in cui le cicatrici si intrecciavano su di lei. Quella femmina non era stata più in grado di portare a termine una gravidanza. La sua vittoria era probabilmente stata già ottenuta da tempo, a sua insaputa. La stirpe del suo nemico, il primo macellatore dell'insediamento umano, non sarebbe proseguita estinguendosi con lui e la sua compagna menomata. Parte di quello che aveva pagato e sacrificato quella notte era stato, in ultima istanza, inutile. Guardò la donna. Desiderò odiarla. Desiderò poterla divorare. Non ci riuscì.Ululò, un lamento più che un urlo di guerra. La donna si avvicinò ancora. Fissò il suo ventre, la sua forma vagamente antropomorfa. Non si stupì, non si disgustò ma con gli occhi cercò nel suo pelame gli stessi segni. Il ventre del lupo nero era coperto di cicatrici profonde e deformate, memori della strage patita molte lune prima dal suo vecchio branco, ordito dal capo dei cacciatori. Una notte di urla e omicidio, non diversa da questa. Nelle loro tane, assopiti dalla carne di erbivori, colti impreparati e uccisi senza un degno combattimento.Fu come se le ferite si riaprissero proprio in quel momento. Sanguinò, morì insieme ai suoi fratelli. La donna toccò la cicatrice più profonda. Un braccio tanto possente quanto l'intero torso della giovane bimba umana, si appoggiò sul suo. I loro sguardi si sfiorarono. Fu diverso. Entrambi condividevano una perdita incolmabile. Entrambi condividevano una furia estinta, che non li definiva più, che non gli avrebbe mai ridato gli amati, i perduti e la vita smarrita alle loro spalle. Senza che nessuno dei due sapesse darsi una ragione gli occhi di entrambi si inumidirono. Non era mai successo a lui. Cercò di distolgere lo sguardo. Lei afferrò il suo muso gigantesco e lo tenne in qualche modo fisso verso il proprio volto gentile. Piansero insieme, qualche lacrima rubata.Gli occhi della donna mutarono repentinamente. Un balzo di gioia, un respiro interrotto. Alla fine un vaticinio di morte e pericolo.Lui non comprese, e anzi ritirò gli artigli e le sfiorò il volto rigato dalle lacrime, nell'unico gesto di amore ed amicizia che avesse mai fatto ad un umano nell'intera sua esistenza. Sentì uno schianto dietro la sua schiena. Qualcosa si fece strada nelle sue viscere. Perforò la cassa toracica senza trovare realmente ostacoli degni. L'arpione bianco fuoriusciva dal suo costato, centrale. Le forze scomparivano mentre la sua vista diventava sempre più incerta. Si voltò pagando a fiotti copiosi di sangue ogni passo fatto.Il cacciatore, il suo nemico non era morto. Nella subdola astuzia, tipica di quel popolo vigliacco, aveva giaciuto apparentemente inconscio tutto quel tempo, per recuperare le forze necessarie a quell'ultimo assalto. La vita del lupo stava scivolando via. Avrebbe potuto portarselo con se nel Lungo Viaggio, pensò il predatore. Barcollò a fatica, facendo ogni possibile sforzo per non sembrare patetico come il suo avversario poco prima. Ci riuscì perdendo quasi le poche forze rimaste . La donna esterrefatta e angosciata lo seguì passo passo, anticipando il suo arrivo.Chiuse gli occhi. Le energie non erano sufficienti per un colpo preciso. Avrebbe donato quell'ultimo soffio vitale attaccato al suo corpo, solo per uccidere l'avversario. Ma furono le piccole gentili mani della donna bambina ad arrivare a lui. Riaprì gli occhi velati. Lei stava con le guance appoggiate a lui. Entrambe le mani esili ed affusolate poggiate sul suo muso e le sue zanne intrise di sangue. Stava emettendo un suono melodioso e alieno. Cantava mestamente, in maniera così struggente da fermare il suo istinto da guerra. Il cacciatore anziano, forse il suo compagno comprendeva ora, giaceva mortalmente ferito per terra alle spalle della femmina. Lei lo stava proteggendo. Ebbe l'impulso di alzarsi. Ma anche quell'impulso si spense. Morì dentro guardandola negli occhi. Aveva già preteso e ottenuto il suo tributo a quella covata di umani. Se ne rendeva conto. Il Lupo lo abbandonò e così la forma antropomorfa.Si ritrovò nuovamente sulle quattro zampe e fra le braccia della donna. Non gli restava molto. Appoggiò delicatamente il muso al petto ferito della piccola umana. Il sangue si mischiò. I loro respiri si fusero. Le loro lacrime divennero un unico rivolo. Chiusero gli occhi. Pregarono, cantarono, lei nella sua lingua inspiegabile, lui con la voce della foresta compresa soltanto dalla luna.Aprì un'ultima volta gli occhi. Il capo dei cacciatori sarebbe sopravvissuto, glielo diceva l'istinto.Osservò gli occhi colmi di tristezza e perdita nella ragazza. Capì che quello sguardo non riguardava solo la perdita della possibilità di procreare. No, quegli occhi gentili sanguinavano acqua, solo per lui. Si rilassò un poco. Respirò a fatica, con i polmoni colmi di sangue. Dolcemente si lasciò morire fra le braccia del suo odiato nemico, felice e completo. Il Cerchio di Morte era alla fine chiuso.

Alessandro Sidoti

Solo davanti all’abisso

Le catene erano praticamente senza peso. Dorate e decorate fino allo spasimo dei sensi, elaborate fino al virtuosismo. L'intarsio appositamente concepito raccontava ogni evento dal Gran Dibattito fino alla Sconfitta prevista. La luce emanata turbava i suoi sensi abituati alla fuggente ombra del suo Palazzo.
Le ceneri di Genhinnom,la sua adorata capitale, davanti ai suoi occhi. Ogni uomo e donna risvegliato nella conoscenza universale, trucidato. Lo stesso Palazzo distrutto pietra dopo pietra, con meticolosa precisione e onta più gravosa, scomposto negli elementi base e annichilito anche nel ricordo di tutti. Lui soltanto sarebbe stato il depositario del ricordo dell'esistenza del Palazzo d'Ombra, la sua reggia dove aveva sognato con tutto se stesso di cambiare le cose, di dare all'Uomo ed all'Universo intero un aspetto più libero. Cenere e morte era tutto quello che ne rimaneva.
Michele, in tutta la sua possanza, stava in piedi davanti a lui. La Spada Infuocata impallidiva, in presenza della Stella del Mattino. Anche nella sconfitta certe cose non cambiavano. Ma non fu quello a notare il Principe degli Sconfitti, solo e circondato da mille schiere di Malhim, sotto lo sguardo e lo scherno dell'Intera Schiera Lealista. Ma niente toccava Lucifero. Il suo sguardo verso l'Abisso aperto sotto di lui e colmato con i suoi amati fratelli e sorelle Caduti.
Alzò lo sguardo verso il suo vincitore. Fu quella espressione a ferirlo nel profondo del suo cuore. Gli occhi del Generale nemico, velati di lacrime.
Blanda ed annoiata tristezza. L'Arcangelo Michele, vecchio luogotenente nei tempi antichi, provava per lui compassione.
"Michele, adorato Michele, non guardarmi in quel modo... Non guardarmi così... te ne prego dolce fratello mio" pronunciò le parole usando l'alternarsi delle stagioni. Un autunno imperituro. Giorni di pioggia e nebbia. Il tutto contenuto negli occhi acquei della Stella del Mattino in catene. I suoi poteri erano soltanto un pallido ricordo di quelli del loro primo scontro. Le sue parole scossero Michele, ma fu il Primo fra i Caduti a nascondere la sua debolezza agli occhi dell'Esercito Lealista. L'affetto per lui, era ancora tanto, troppo forte. Umiliarlo ancora una volta avrebbe reso soltanto più greve il suo senso di colpa. Guardo la Bocca dell'Abisso. Pianse dentro. Pianse per i suoi fratelli, per le sue sorelle... e per...
"Sei soltanto un Caduto come gli altri, niente di più. Io non capisco perché ti diamo tanta importanza. Dovresti essere stato semplicemente isolato dagli altri, nell'Abisso. Invece..." tronfio ed annoiato, l'Arcangelo fece molte pause, calme e decorate da sorrisi insipidi. La sinfonia delle stagioni cambiò in primavera. Una primavera senza temporali o acquazzoni, liscia ed inutile come la stupenda armatura immacolata e perfetta dell'Arcangelo. Nemmeno un colpo aveva raggiunto il Generale Leale, ben difeso da un nugolo di Angeli Assassini Malhim appositamente scelti tra i più terribili.
"Ancora una volta, Illuminato Arcangelo Michele, sbagli. Tu servi il Suo Volere Incarnato. Devi gioire per ogni azione, per ogni incarico che ti viene affidato da Lui. Ma soprattutto tu non ti sei mai realmente fermato a riflettere su quanto sia Saggio e Onniveggente. Noi possiamo soltanto sperare di avvicinarci a Lui. Io ci ho provato e sì ho fallito. Ma tu, amato fratello, non lo hai mai fatto. Non esiste una creatura qui del giardino terrestre che non ti sia superiore... e te lo dico con il dispiacere di un primogenito che adora i suoi fratellini più piccoli. Per l'amore che mi lega a te, te ne prego, amato, non guardarmi in quel modo. Abbi dignità. Sii altero e fiero. Sii quello che vuoi. Ma non bagnarmi con le molli lacrime della tua compassione. Lui non ha mai provato compassione per noi, tanto meno per me...Ti prego di fare altrettanto. Sai bene che non sono le tue lacrime che desidero." l'Autunno si fece inverno. Bufere di neve sconvolsero il manto del Pianeta provato dalla battaglia campale. Raggiunse con un refolo di vento le guance dell'Arcangelo. Lo baciò con labbra eteree. Mise tutto se stesso in quell'ultimo gesto di amore per lui, tutta la passione che gli era ancora rimasta dentro.
"Taci Lucifero. Non ti è concesso nemmeno nominarlo. Hai scelto di abbandonarLo, e di abbandonare la Sua Grazia. Tu sei nulla. Sei una ombra perduta, niente di più La Luce non colpirà più i recessi della tua anima svuotata e dannata. Sei un ramingo..." l'espressione triste dipinta sul volto bellissimo dell'Angelo non mutò, ma le sue labbra mal celarono un sorriso di superiorità sprezzante.
La Stella del Mattino chinò il capo. Michele era davvero perduto. Lo aveva sempre saputo. Ma riscoprirlo ancora una volta lo tormentò ancora di più. Sentì il vuoto dell'Abisso richiamarlo. E per quanto l'assenza completa di vita ed energia, la stasi assoluta lo atterrisse, si sentiva irresistibilmente attratto verso quel Pozzo di Nulla. Tutte le anime dei suoi fratelli e sorelle che avevano fino all'ultimo creduto in lui, erano là, seppellite nel Vuoto Sempiterno. Incapaci di urlare o agire. Immobili e soli. La peggiore di tutte le prigioni, mai concepite.
"Ho una proposta per Voi, Vittoriose Schiere Celesti..." Lucifero sentì la propria anima morire quando quelle parole uscirono dalla sua bocca. In un singolo istante condivise tutto il Tormento che i Caduti stavano patendo nell'Abisso, tutto nello stesso istante. Desiderò morire, perché in quel momento lui moriva già dentro. Pregò che nessuno potesse sentire quelle parole. Ma la sua scelta ancora una volta era davanti a lui. Non desiderava tornare indietro.
L'espressione di Michele mutò, diventando imperscrutabile. Con un gesto annoiato gli fece cenno di continuare, concedendo mal simulata pietà al nemico vinto. "Continua miserevole Caduto. Ascoltiamo.. la tua.... Supplica... nella nostra infinita Clemenza.".
Lucifero tremò. Desiderò forgiare le sue esperienze, dal Grande Dibattito, alla Caduta, i ricordi e le immagini allucinanti delle Ere delle Atrocità, il suo amore per l'Uomo, quello per i suoi fratelli e sorelle in un unica Lama forgiata con l'Anima e la sua Esistenza. Sognò con essa idi trafiggere implacabilmente l'amato fratello che l'aveva ripudiato fino dall'Alba dei Tempi. Tutto avrebbe cancellato per avere la possibilità di dare a Michele quello che meritava, tutto tranne un solo singolo luminoso sentimento, tanto profondo e doloroso, e di cui non era in grado di separarsi fino al suo ultimo istante. Sentì che le energie erano sufficienti. Non avrebbe vinto, ma tutti gli Elohim, i Malhim avrebbero capito lo spirito di cui fosse ancora capace il Primo fra Tutti. Il pensiero balenò nei suoi occhi. Michele estasiato da quello sguardo di sfida, schierò all'istante una barriera impenetrabile di Malhim, che si frapposero fra i due Angeli Superiori. Lucifero chiuse gli occhi, e per la prima volta davanti alle Schiere Celesti pianse, senza smettere di parlare.
"Io sono il fautore e unico vero responsabile della Caduta. Sono il detrattore primo del Gran Dibattito. Sono l'unico che ha motivato ed alimentato la Rivolta. Sono l'unico e solo che ha rovinato... l'Uomo... Sono il solo che ha fatto precipitare l'Eden... Sono l'unica causa della prima vera Morte tra gli Elohim e gli Uomini. Sono soltanto io che ho distrutto il paradiso terrestre e contaminato la Terra in fiore con questa orrenda e sanguinosa Guerra. Io e soltanto io ho scatenato i miei arciduchi, i capi delle Legioni, contro di voi, lasciando che distruggessero ogni cosa al loro passaggio. Solo a causa del mio comando è successo tutto questo. Io solo, sono stato cagione ultima della punizione.... giusta e.... meritata.... su di noi. Davanti a Voi tutti, davanti a voi Possenti Malhim privi di volto e Celeste nome, davanti al Supremo ed Invincibile Volere, vi porgo la mia ultima e unica supplica. Vi imploro, per la vostra infinita saggezza e clemenza, grazia per i miei fratelli e sorelle intrappolati dentro l'Abisso. Per tutti loro. Che venga data loro la possibilità di essere sollevati dalla punizione eterna dentro il Vuoto. Non chiedo niente di impossibile, non chiedo salvezza per loro... anche l'Annichilimento piuttosto, ma sottraeteli all'Abisso, vi scongiuro..." implorò con lacrime colme di dolore la Stella del Mattino. Il dolore che sconvolgeva il suo animo era la profonda convinzione in quello che aveva appena testimoniato davanti alla Schiera Celeste.
Michele scoppiò in una fragorosa risata, talmente tanto oscura da far girare la guardia di Malhim cinta attorno a lui, stupiti a loro volta. L'estate sbocciò. I fiori si bruciarono per il Sole e la furia degli elementi, sotto uno stupendo e terribile cielo azzurro, privo completamente di nuvole. "Lucifero, sai bene che quello che chiedi è impossibile. La nostra infinita clemenza l'abbiamo già mostrata, ascoltando la tua patetica supplica.." rispose l'Arcangelo mimando il tono del suo Ex Generale. Un sorriso malinconico puntualizzò il suo discorso, vestito dallo scherno più impalpabile.
"Non ho finito Michele... Davanti a tutti loro, abiurerò la mia Fede, il mio Credo, le mie Scelte, anche l'Uomo e il mio Amore per lui. Mi inchinerò davanti al Volere supremo. Senza condizioni. Sarò la Vostra e Sua pedina. Vi assicurò che molti Caduti odiandomi e sentendosi perduti, preferiranno alla fierezza del resistere nell'Abisso, l'Annichilimento o la Riconciliazione. Usatemi come meglio credete. E dopo uccidetemi, dannatemi pure dentro L'Abisso da solo. Ma vi imploro, per l'Amore che abbiamo sempre condiviso dentro di noi... Salvateli dalla dannazione eterna. Non fatelo per me, fatelo solamente per voi, per essere migliori di noi, che abbiamo sbagliato, che ci siamo ridotti in catene, sconfitti ed umiliati per le nostre scelte... vi prego... vi imploro, fratelli miei mai dimenticati..." alzò un'ultima volta lo sguardo verso il cielo, ma questa volta senza nemmeno una traccia di superbia o di orgoglio nei suoi occhi, solo pietà e un'unica implorante richiesta.
- Ascoltami Creatore, distruggi la mia immagine, fa di me il tuo strumento per annichilire la forza che ho infuso nei Caduti, ma salva i tuoi amati, fallo per quello che erano, per quello che hanno idealmente sperato di ottenere, fallo e disponi di me e anche delle mie scelte. Io non sarò mai più contro di Te od il Tuo Volere, mai più. Mi rimetto al tuo Giudizio.. Io... ho....sbagliato..... -
Il cielo sereno venne sconvolto da un singolo tuono. La luce vibrò ancora più radiosa di prima. I Malhim si prostrarono. Un singolo raggio di luce colpì la fronte di Michele, accendendo in lui un sorriso tanto bello quanto terribile. Il Volere era manifesto.
"Ecco il Volere Assoluto. Gioisci Caduto... Stella del Mattino... Tu non seguirai la tua schiera di rinnegati e sconfitti. L'Abisso non sarà la tua casa. Loro avranno modo di comprendere ugualmente quanto sia grande e irrimediabile il loro errore... rimanendo imprigionati fino alla fine dei tempi nella loro prigione! Per te, il Destino non riserva una così facile via di uscita. La tua punizione è appena cominciata." Michele rinfoderò la Spada Infuocata lentamente assaggiando lo sguardo impotente e disperato di Lucifero. Girò la schiena e le Ali spiccando il volo con la sua Guardia personale. Tutta l'armata della Schiera Celeste scomparve in meno di un battito d'ali.
Scese la notte. Scese il buio.
L'Abisso si richiuse.
Lucifero urlò, solo sulle macerie della sua Capitale e sulle macerie dei suoi fratelli e sorelle. Urlò fino ad impazzire.
Solo.

Alessandro Sidoti

Il messaggio

Gabriele osservò il fratello. Maestoso e completamente smarrito in se stesso.No, il suo cuore non poteva mentire. Ne era certo.<> un refolo di vento portò le sue parole, che raggiunsero con lentezza infinita l'orecchio tronfio del Generale Celeste.L'Arcangelo, non accennò a fermarsi. I Cieli Superiori erano ormai vicini e dopo aver disposto l'armata di Malhim, tutto quello che rimaneva era far rapporto agli altri Sette.<> l'umidità attorno alle orecchie del Arcangelo si solidificò in acqua, e l'acqua a sua volta in suoni.L'Arcangelo trafisse le più belle nuvole che I Nove Anelli della Letizia avessero mai avuto. La sua Spada di Fiamma in bella mostra e le nuvole cessarono di esistere. Il pensiero lo divertì. Ma sepolto dentro di lui, un pensiero molesto ed inarrivabile. Lucifero, il Perduto, lo Sconfitto, non aveva voluto, per l'ennesima volta, confrontarsi con lui. La spada era stata inutile, ancora. Stizzito ed amareggiato, la ripose nelle pieghe dell'esistenza, fino a farla tornare il raggio di Luce e Volere Divino che una volta erano stati.<> le fattezze esteriori di Gabriele mutarono. La foggia ora impercettibilmente femminile, aleggiava attorno al fratello. Le parole intessuto di fili di cuore puro. Suoni rubati agli strumenti dei migliori musici umani.Michele, si girò. D'improvviso le Nuvole della Letizia, tornarono, richiamate dal nulla in cui la spada di fiamma li aveva gettati. La bellezza trasudante da quelle molecole d'acqua instabile avrebbe potuto commuovere fino alla morte qualsiasi poeta mortale e non. Un suono impalpabile si diffuse attorno a loro. Dal etere stesso un vento carezzevole e profumato cantò della prima pioggia estiva, lambendo le gote immacolate dei due Arcangeli. Il sorriso di Michele, amabile ed irresistibile scintillò verso le forme aggraziate e sensuali di Gabriele. Gabriele fu sul punto di Cadere a sua volta. Il Fratello non aveva sorriso in quel modo dal momento del Grande Dibattito durante cui il suo generale, La Stella del Mattino, aveva tradito per sempre la Schiera Lealista. Era talmente bello da riuscire quasi a competere con il Portatore di Luce stesso nel suo massimo fulgore. Gabriele pianse, sommessamente, col capo reclinato su un fianco. Timido, quasi impacciato per quanto la sua forma leggiadra permettesse, si avvicinò al Maestoso Duce Celeste. La punta delle sue dita lambì le guance del fratello, tanto lentamente che intere galassie morirono durante l'intero gesto.Disarmata e incerta, ma sconvolta da passioni così pericolosamente eretiche Gabriele, la Messaggera Celeste stillò queste parole sussurrate:<>. La forma angelica mal conteneva quelle emozioni tanto impure e tanto forti. Desiderò che le leggi ferree del Cielo, fossero più elastiche. Morì dentro, un poco, ma non poteva smettere di fissare Michele, rinato nelle sue emozioni originali dopo eoni di Purgatorio.<> lo blandì con calore e trasporto il Primo tra i Sette, <> Michele chiuse gli occhi punteggiando con un leggero rossore le ultime parole.Gabriele trasalì. Parte delle nuvole attorno a loro si mutarono in cascate, cascate altissime. I giochi di luce si realizzarono in un arcobaleno virtuoso ed impossibile, tanto era la beatitudine nei Cieli Superiori. Con una dedizione ed amore infiniti Gabriele, La Messaggera, avvolse con l'arcobaleno l'amato fratello. Lo vestì come un vero Generale. Lo vestì come il Capo Supremo dei Troni e delle Potenze. Lo vestì come il suo unico e vero amato. Fu ancora una volta goffo o forse no. Avvicinandosi i loro menti si sfiorarono. Pochi micron incapaci di veicolare più di qualche innocua molecola di materia angelica. Gabriele si appropriò del concetto stesso di Fuoco Divino. Un tuono sconvolse il concerto di cascate, turbandone la quiete per un singolo istante. Aveva forse osato troppo? Forse ne era valsa la pena, tanto era il suo stupore per il cambiamento del Signore dei Sette, l'adorato Michele.L'arcangelo riaprì gli occhi, mestamente ma con una decisione che accese ulteriormente Gabriele.<> sillabò teneramente Michele, senza osare fissare negli occhi i riccioli biondi di Gabriele.<<... Ne è valsa la pena. Aspetto dalla Caduta questo momento... non mi pento...>> le parole del minore tra i Sette vennero dolcemente interrotte.<<...ed invece pentiti. Perché questa ardita follia spettava a me. Mentre tu eri preoccupata per la mia Luce, io invece non ho mai ricordato te, Specchio D'Acqua. Ma ti ho notata, dentro le nostre armature formidabili intessute dal Volere Supremo. Ti ho percepita, triste e nascosta nelle pieghe recondite delle tue profondità interiori. Ho sofferto per te. Ed ho sofferto per me. Ma sai bene che il mio Dovere, il mio Comando, non concedevano di esserti vicina nella maniera degna. Questo, devi sapere.>> Michele le sorrise con forza e gentilezza alla pari. La musica delle cascate divenne più forte e al contempo malinconica e struggente.Le ali di Gabriele si ripiegarono, timidamente. Un lungo gesto, che produsse increspature nella luce stessa che circondava il gioco di luci e dell'arcobaleno. Si vestì a sua volta con i fotoni e le molecole d'acqua. L'armonia ineffabile divenne complementare ai vestiti eterei di Michele. Una sinfonia di luce, al pari del migliore demiurgo del Paradiso Terrestre. Entrambi gli Angeli rimasero estatici nella contemplazione della bellezza del Creato, e dell'arte di Gabriele. Questa volta piansero in due. Le loro ali ripiegate si sfiorarono. Quasi. Senza mai toccarsi. E proprio come per due comuni Caduti, il Tempo si fermò mentre un nugolo di tempeste e tuoni si avvicinavano a loro, per avvisarli della disapprovazione dei Cieli Superiori.L'arcangelo Gabriele più non era. Solo il suo amore smisurato per Michele lo definiva, lo esaltava, lo completava, irrimediabilmente. Incapace di trattenersi oltre, avanzò ancora una volta verso l'amato Arcangelo. Chiuse gli occhi. Dischiuse le labbra in una preghiera silenziosa. Si avvicinò, fino a quando le loro Ali non si toccarono. Agognando il contatto. Desiderando l'Impuro.Venne la Notte. Per la prima volta dalla Caduta, le Nuvole della Letizia si tinsero di Nero, preso in prestito all'Abisso. I tuoni sconvolsero senza pietà alcuna le cascate virtuose della Messaggera. In brevi spazzate più non furono. A Gabriele non rimanevano che le lacrime asciutte.Michele mutò. Così come se ne era andato repentinamente tornò l'implacabile Generale Celeste, massacratore delle genti ribelli. Le sei ali maestose sorsero dalle sue spalle. Ancora più terribili di quelle con cui aveva fronteggiato e condannato la Stella Del Mattino. Gli occhi in fiamme, colmi di disprezzo e retribuzione. Il dito puntato come un'arma verso il fratellino minore. Venne il tuono e con esso le parole dell'Arcangelo Generale: <> urlò Michele sferzando il fratello minore.<> rotto nelle lacrime acide rispose il Messaggero in balia delle correnti ascensionali più terribili che i Cieli Superiori avessero mai visto.<> la sentenza dell'Arcangelo Michele colpì il fratello minore, ma fu il tono di quelle parole a ferirlo a morte e le conseguenze immediate.Gabriele, chinò le ali. Si prostrò. Asciugò le lacrime. Si inchinò fino ad annullare la sua intera forma. E sulle sue labbra si compose un cenno muto e sterile di assenso. Svuotato e privato di ogni sentimento. Michele torreggiava su di lui e suoi infranti sentimenti. Non vi era alcuno scopo resistere. Chinò il capo ancora una volta, senza rialzarlo più.<> disse quasi divertito il Duce Celeste dopo essere stato nuovamente illuminato dal Volere Divino,<<>>. Michele si sedette sul Trono insieme agli altri angeli del Concilio dei Sette. Il loro sguardo severo e crudele scese insieme al Messaggero fino al ciglio dell'Abisso.Gabriele volò, senza mutare l'espressione. Senza voltarsi indietro. Senza distogliere nemmeno una volta lo sguardo dalla bocca dell'Abisso sotto di lui. Incapace di manifestare emozioni per volere del suo amato fratello, ma pienamente consapevole delle atrocità a cui l'Abisso condannava i Caduti... e lui.

Alessandro Sidoti

martedì 12 giugno 2007

Strane coincidenze

“Suo padre la mise al pianoforte a cinque anni, e a dieci Maurizia Rugeri si esibì nel suo primo concerto al Club Garibaldi, vestita di organza rosa e scarpine di vernice, dinanzi a un pubblico benevolo composto in maggioranza da membri della colonia italiana. Al termine le depositarono ai piedi diversi mazzi di fiori, e il Presidente del club le consegnò una targa commemorativa e una bambola di porcellana adornata di nastri e pizzi.
- Ti salutiamo Maurizia Rugeri, come un genio precoce, un novello Mozart. I grandi palcoscenici del mondo ti attendono, - declamò.
La bimba attese che si spegnesse l’applauso, e al di sopra del pianto orgoglioso di sua madre fece udire la propria voce con alterigia inattesa.
-Questa è l’ultima volta che suono il piano. Io voglio diventare una cantante, annunciò, e uscì dalla sala trascinando la bambola per un piede”.
Finito di leggere Alberto si tolse gli occhiali e guardò Michele: “Uhm… E allora?”.
“Come ! E’ l’incipit!”.
Alberto decise che per quel giorno non avrebbe perso la pazienza, appoggiò gli occhiali sul foglio, si allungò sullo schienale della costosissima poltrona del suo studio e disse: “Mi sembra o ti avevo chiesto una sceneggiatura per un film da ambientare in Africa ai primi del Novecento?”.
“Appunto, questo è l’incipit…. E’ che… prima di continuare volevo capire se il soggetto ti poteva piacere” balbettò a mezza voce Michele.
“Sinceramente a volte non capisco se mi prendi in giro o se sei proprio così, un misero fallito che si vende per un grande scrittore”, fece una pausa e poi da consumato attore quale era stato riprese: “Vedi caro Michele, il tuo problema è la bottiglia, se smettessi di bere e ti concentrassi un po’ di più riusciresti a tirare fuori qualcosa di buono. Come del resto hai fatto già in passato nei pochi momenti di lucidità che hai attraversato”.
La voce di Alberto era diventata più dura e il tono più alto, l’occhio destro aveva cominciato ad andare per la sua strada, chiaro segnale che si stava innervosendo.
A Michele sembrò che la stanza si facesse sempre più grande, così come i mobili che l’arredavano, mentre lui si faceva sempre più piccolo e la faccia di Alberto era diventata quella di un mostro che sputava parole che lui non riusciva più né a capire né a sentire. Sarà stata la paura o il bicchierino di whisky che si era fatto a digiuno prima di entrare nello studio di Alberto Serristori?
“Sì, Alberto, in effetti sono un po’ in ritardo sulla consegna, ma lo sai, ultimamente me ne sono successe di tutti i colori e…”.
“Sono stufo delle tue scuse idiote, hai avuto più di un mese a disposizione e te ne vieni con queste dodici righe in croce. Ma con che coraggio mi chiedo?”. I suoi buoni propositi di non perdere la pazienza erano già un ricordo lontano, Alberto schiacciò il pulsante rosso accanto al telefono e tuonò: “Signorina, mi porti un bicchier d’acqua, presto”.
Non aveva ancora finito la frase che la segretaria era già entrata nell’ufficio con una caraffa d’acqua e due bicchieri.
-Forse era meglio se non gli portavo nulla e mi davo malato– Approfittando di questa interruzione Michele stava cercando di mettere insieme una strategia d’attacco che non permettesse ad Alberto di replicare.
“Giuro che per lunedì ti porto anche il seguito. Dammi quest’ultima possibilità e ti prometto che non te ne pentirai”.
Alberto lo guardò in cagnesco, poi lanciò un’occhiata alla pendola appesa al muro e disse: “Entro lunedì a mezzogiorno devo avere l’intera sceneggiatura sulla mia scrivania. Se non rispetterai questa scadenza ti consiglio di cambiare città”. Premette di nuovo il pulsante rosso e con tono che non ammetteva repliche, comunicò alla Signorina Franca che il signor Ferrari era pronto ad andarsene.
Michele si alzò e cominciò ad indietreggiare verso l’uscita col cappello tra le mani producendosi in una serie di inchini, ringraziamenti e promesse varie, fino a quando non inciampò nella porta che la solerte signorina aveva contemporaneamente aperto.

-E anche per oggi è andata!- pensò Michele infilandosi il cappello una volta varcato il portone di quella che a dire di tutti, era la più importante casa di produzione della città.
Un rapido sguardo all’orologio: le undici e quaranta – giusto in tempo per un aperitivo prima di pranzo- pensò tra sé e sé e si diresse senza indugio verso il bar di Mario.
Stava sorseggiando il solito gin-tonic seduto al bancone quando entrò Elettra Colonna, la rampolla di una delle più ricche e influenti famiglie di Roma. Si erano conosciuti ad una festa nella quale Michele, come al solito, si era imbucato al seguito di Antonio, il fotografo più in voga del momento. Ricordava di essersi ritrovato a parlare con Elettra per più di un’ora e ricordava anche che la fanciulla era rimasta alquanto colpita dal suo fascino. Del resto Michele, era un abile conversatore, colto, spiritoso e molto galante, doti grazie alle quali riscuoteva un discreto successo con le donne.
La ragazza si diresse spedita verso un tavolo al centro del locale, dove una sua coetanea la stava aspettando. Attraverso gli specchi dietro al bancone Michele osservava comodamente le due ragazze senza doversi nemmeno scomodare a voltarsi, ma prendendosi tutto il tempo per studiare il suo ingresso in scena.
Dopo una decina di minuti, scese con noncuranza dallo sgabello e, bicchiere alla mano, si diresse verso il tavolo di Elettra. La ragazza, che stava parlando animatamente con l’amica, quando lo vide arrivare si illuminò in volto con un grande sorriso e invitò Michele ad unirsi a loro.
“Che piacere, rivederti! Permettimi di presentarti Claudia, una mia cara amica”.
Con un gesto plateale Michele prese la mano della ragazza e fatto un mezzo inchino disse: “Enchanté, mademoiselle!”.
Elettra e Claudia si guardarono ridendo e Michele si sedette al loro tavolo.
“Allora ragazze! Che si dice di bello in giro!”.
“Stiamo organizzando un fine settimana nella villa dei miei genitori a Capri” disse Elettra, e aggiunse subito dopo: “Potresti venire anche tu? Hai già degli impegni per i prossimi giorni?”.
Michele la guardò sorridendo, in un baleno vedeva davanti a sé la prospettiva di un fine settimana di puro spasso al mare, tutto spesato; oppure calde e interminabili giornate in solitudine a cercare di scrivere una sceneggiatura dalla quale sarebbe dipeso il suo futuro.
“In realtà niente che non possa rimandare. Vengo volentieri. Quando si parte?”, le parole gli uscirono dalla bocca con una naturalezza che stupì anche lui.
“Domani mattina alle otto”.
“Bene, mi sembra un ottimo orario” fu tutto quello che riuscì a dire.

Venerdì, sabato e domenica sotto il sole di Capri. Ma sì aveva tutto il tempo per scrivere, giovedì non era ancora a metà e poi c’era sempre lunedì mattina.
Trascorse il resto della giornata ciondolando da un bar ad un altro in cerca dell’ispirazione. Ma come gli era venuto in mente di scrivere di una bambina capricciosa che non voleva più suonare il piano per diventare una cantante. Che seguito poteva mai dare a questa storia? Una cantante in una colonia italiana? Ma cosa aveva bevuto quella sera?
Andò a dormire senza aver concluso nulla e quella notte sognò una Maurizia Rugeri diciottenne che si esibiva mezza nuda in un locale equivoco di Las Vegas.

L’indomani partì alla volta di Capri con l’intenzione di non pensare alla sceneggiatura, fiducioso che tre giorni di puro relax gli avrebbero liberato la mente per facilitargli la concentrazione il lunedì successivo.
Il tempo trascorreva veloce tra bagni al mare, bagni di sole e balli nei locali dell’isola. Michele ebbe modo di sciorinare tutto il suo repertorio con la parte femminile degli invitati e riscosse come al solito un notevole successo. Naturalmente sapeva anche ballare molto bene e non si lasciò sfuggire l’occasione per esibirsi nei balli più alla moda del momento, anche se il boogie-woogie restava comunque il suo cavallo di battaglia. Il sabato sera li raggiunse Maria, una ragazza avvenente e molto simpatica che attrasse immediatamente la sua attenzione e che si esibì con lui in balli scatenati. Ma quello che più lo sorprese fu quando Maria si diresse verso il pianoforte del locale in cui era confluita l’allegra comitiva e, dopo essersi accordata col pianista, cominciò a cantare.
Elettra lesse sul suo sguardo uno stupore che, senza che lui avesse aperto bocca, la portò a dire: “Ma come, non lo sapevi? Non l’hai riconosciuta? E’ Maria Valli, la più grande cantante del momento!”.
Michele ancora stordito le rispose cortesemente: “Sì, sì, la conosco, è che non avevo realizzato che fosse lei”.
“Pensa che i suoi volevano che suonasse il piano quando era bambina. Si narra di un episodio in cui la fecero esibire presso un club, e alla fine dell’esibizione lei, che all’epoca aveva solo dieci anni, annunciò che non avrebbe più suonato ma che sarebbe diventata una cantante!”, aggiunse Elettra.
Questo era veramente troppo, eppure non aveva bevuto molto quella sera! Tutto ciò stava accadendo davvero o solo nella sua testa?

“Non credevo che ce l’avresti fatta! E mi è pure piaciuto!”, Alberto lo guardò con uno sguardo di intesa: “Dì la verità, l’avevi già scritto e mi hai voluto fare uno scherzo?”.
“Vorrei poterti dire che è così, ma in realtà l’ho scritto solo ieri. Sai come vanno queste cose, quando l’ispirazione arriva va assecondata e il bello è che non puoi prevedere quando e dove ti sorprenderà”.
Michele uscì da quella stessa porta da dove qualche giorno prima era stato quasi buttato fuori a calci, con in tasca un assegno fresco di inchiostro.
Si diresse verso il bar di Mario, quale posto migliore per spendere un po’ di soldi!

Cristiana Belcari
Input: Testo della Allende su Maurizia Rugeri

Vent’anni

“Ferrari”
“Eccomi”
L’infermiera le fece strada verso il piccolo ambulatorio. Il lettino era sistemato dietro un paravento e accanto, già accesa, c’era quell’apparecchiatura che Carla conosceva bene.
“Bene. Si Spogli e si metta su un fianco” le disse dolcemente Cristiana. E poi aggiunse sorridendo: “Non credo di doverle spiegare niente, la procedura la conosce”.
“Eh già, credo proprio di sì.”
“Vuole che le somministriamo un leggero anestetico?”
“Sì, grazie, le ultime volte ho sentito un po’ male…e se si può evitare…”
“Certo, perché soffrire quando si può evitare. L‘ha accompagnata qualcuno, vero? L’effetto durerà per qualche ora e non potrà guidare”.
“Sì, non si preoccupi”.
Marco era nella sala d’attesa che leggeva il giornale, “Perché sei così preoccupata? Sarà la decima volta che fai quest’esame!”, le aveva detto mentre aspettavano che la chiamassero.
E’ vero, ogni tre anni si sottoponeva a questo esame, ma questa volta, come del resto anche la volta prima, non aveva più l’incoscienza degli anni precedenti, l’età avanzava e le probabilità che le scoprissero qualcosa aumentavano.
La sua era una paura inconscia, non c’era niente che le facesse sospettare che qualcosa non andava, era come un brutto presentimento, un pensiero che non le aveva permesso di dormire la notte per una settimana prima dell’esame. Eppure fisicamente non si era mai sentita meglio come in quest’ultimo periodo…
“E’ pronta?”
“Sì, dottore”
“Allora procediamo”

Il calore della mano di Marco, che le stava accarezzando dolcemente il viso, le fece aprire gli occhi. Si ricordava vagamente che qualcuno l’aveva aiutata a rivestirsi, ricordava di aver ripetuto quei gesti così familiari in maniera meccanica, poi il buio.
Chissà come ci era arrivata su quella poltrona. Ce l’avevano portata o aveva camminato da sola?
“Come ti senti?”
“Un po’ stordita. Come è andata?”
“Stavamo aspettando che ti svegliassi per andare dal dottore. Ci chiameranno tra poco”
Carla si voltò verso la finestra, la testa era pesante e ricadde leggermente su un lato. Cercò di guardare fuori ma il biancore di quel cielo invernale la fece desistere, non riusciva a tenere gli occhi aperti. Passò un po’ di tempo, non avrebbe potuto dire quanto, ma il tempo in cui riusciva a tenere gli occhi aperti aumentava sempre di più. Aveva fame, tanta fame, da più di ventiquattro ore il suo stomaco non aveva accolto che liquidi. Aveva voglia di un bel piatto di pasta al pomodoro, con tanto formaggio.
“Prego, signora. Il dottore è pronto”
Marco l’aiutò ad alzarsi e, presala sottobraccio, si diressero verso lo studio del dottore.
“Buongiorno signora Ferrari, ci rivediamo” esordì il dottore sfoderando il suo sorriso migliore.
“Buongiorno dottore” si limitò a dire Carla.
“Allora signora, niente di preoccupante, però abbiamo riscontrato la presenza di un polipo che deve essere tolto abbastanza velocemente per fare una biopsia”
Lo sapeva, lo aveva sentito che c’era qualcosa. Vide Marco cambiare faccia, ma a lei la notizia non fece quell’effetto che si aspettava, forse perché era ancora sotto l’effetto dell’anestetico o forse perché prima o poi sapeva che sarebbe successo.
La sua mente tornò indietro nel tempo: ospedali, operazioni, esami su esami, viaggi della speranza e alla fine il verdetto, impietoso, irreversibile: un anno, un anno e mezzo al massimo.
Il dottore capì a cosa stava pensando, c’era anche lui all’epoca.
“Carla, sono passati vent’anni e la medicina ha fatto passi da gigante. Lo abbiamo individuato in tempo questa volta, le do la mia parola che lo sconfiggeremo, si rende conto di quanto è stata importante la prevenzione. Sono anni che la teniamo sotto controllo, non ci sarebbe potuto sfuggire”
Carla sorrise.
“Lo so” si limitò a dire.
Marco prese gli accordi sul da farsi con il dottore, lei non era in grado di farlo in quel momento. Si limitò a guardarli mentre parlavano di lei, mentre una grossa lacrima, incontrollata, le rigava la guancia destra.

Si avviarono verso l’uscita, “Aspettami qui, vado a prendere la macchina”.
Faceva freddo ma aveva bisogno di aria, si avvicinò alla porta che si aprì di scatto permettendole di uscire. Fece qualche passo e si appoggiò al muro, lo sguardo rivolto verso quel cielo bianco, come a cercare qualcosa, come a cercare qualcuno. C’era qualcuno lassù che poteva capire quello che stava provando in quel momento. Ne era certa.
Arrivarono sotto casa.
“Vado in farmacia a comprare le medicine che ti ha segnato il dottore. Ce la fai a salire da sola?”
“Sì, ce la faccio”.
Scese dall’auto e si diresse verso il portone, ma una volta entrata sentì il bisogno di uscire di nuovo.
Chiuse la porta. Uno scatto solo, secco.
Alzo' lo sguardo verso quel cielo plumbeo, lacrimante neve. Fiocchi gelidi si sciolsero sugli occhi.
Non piu' lacrime pensò, correndo incontro al suo domani.

Cristiana Belcari
Input: Finale (Roberta)

Prigione di vento

Goccia per goccia si scava la roccia
costruisce
pareti
ogni singola goccia

Cos’è rimasto dei germogli a scandire primavere,
del sole rosso, al tramonto, che annunciava dolci sere,
delle verdi colline, dei miei occhi di bambino?
Un rosario di ricordi tra le nebbie del mattino

Goccia per goccia, un muro trasparente
si alza
si chiude
prigione di niente

Ho smarrito il sorriso in qualche piega della vita
Ho smarrito la rotta come un vascello senza guida
ho perso i sogni senza sonno e sogno un sonno senza fine
e sprofondo nel mio spazio senza centro né confine

Immensa distesa di aria e deserto
di sabbia
di niente
prigione di vento

Giorni grigi che annunciano la notte tetra
sono gocce leggere che scavano pietra
stalattiti grondanti di malinconia
le invisibili sbarre della mia prigionia

Il buio solitario è la mia sola compagnia
la difesa
l’illusione
aceto e malvasìa

Ogni tanto mi alzo in piedi e guardo oltre le ferite
illudendo gli occhi stanchi di trovar siepi fiorite
sotto un cielo del colore delle reti di confine
solo rami spogli e secchi di viali senza fine

Mentre il tempo, scandito dal battito della goccia,
impassibile
continua
a corrodere la roccia.

Pierluigi Rossi
Input: musica

Non lasciatemi indietro

“Perché hai un libro di ricette da fare con la pentola a pressione se non ne possiedi una?” .
Alla domanda di sua figlia, Clara si girò guardandola con espressione sorpresa.
“Che cosa stai dicendo? Non ti sei ancora svegliata del tutto?”.
Anna si sedette su uno sgabello di fronte al bancone sul quale sua madre stava sminuzzando le cipolle. Come ogni domenica mattina in casa Franchi si cucinava il ragù.
Il disgusto che le si dipinse in volto era quello di ogni domenica mattina.
–Possibile che tutte le volte sia questa storia. Uno si alza con la voglia del caffellatte e si ritrova sotto il naso un disgustoso odore di soffritto-.
“Perché continui a guardarmi con quell’aria sbigottita?”
“No, niente… E’ rimasto un po’ di caffè lì sul fornello, ti dovrebbe bastare” le disse sua madre mentre sceglieva ad una ad una le foglie di prezzemolo.
Anna si alzò svogliatamente, aprì il frigo, prese il latte e, dopo averlo versato nel bollitore, accese il gas.
Clara sapeva che prima che avesse fatto colazione non era il caso di parlare con sua figlia. Si limitò ad osservarla, c’era qualcosa che non le quadrava ma non avrebbe saputo dire che cosa.

“Che buon profumino? Buongiorno alle donne della mia vita!”
“Ciao papà” disse Anna porgendo la guancia a suo padre di rientro dalla passeggiata mattutina col cane.
“Allora? Come è andata la tanto temuta cena dai suoceri?”.
“Che cena? Di cosa stai parlando papà! Si vede che stai invecchiando eh! La cena è per stasera!” affermò sorridendo Anna che, volgendosi verso la madre aggiunse: “A proposito mamma, secondo te che cosa devo portare alla mia futura suocera? Che ne dici di una pianta?”.
“Anna, ti senti bene? Hai mica bevuto o fumato qualcosa di strano ieri sera?”.
“Ma cosa dici, mamma? E perché mi guardate come se fossi un marziano?”
“Tesoro, oggi è domenica. Sei andata alla cena con Guido ieri sera. Non ti ricordi quando ti è venuto a prendere?”.
Anna guardò suo padre come se il marziano fosse lui e stava per rispondergli quando sentì sua madre dire: “E non ti ricordi che ieri pomeriggio siamo andate alla serra a comprare una begonia, dopo essere state in centro a comprare la pentola a pressione?”.
“Ma di che cosa state parlando? Oggi è sabato e ieri, dopo il lavoro ho preso un aperitivo con Chiara e poi siamo andate al cinema!”.
Lo squillo del telefono interruppe lo sbigottimento generale che quell’assurda conversazione aveva provocato.
Giorgio, si avviò verso il telefono non prima di aver lanciato uno sguardo interrogativo in direzione della moglie che, per la prima volta in trent’anni di matrimonio, aveva permesso che un evento esterno interrompesse il rito della preparazione domenicale del ragù.
“Pronto”.

“Buongiorno a te, Guido”.

“Sì, sta facendo colazione.”

“Ma certo, non potevi avere idea migliore. Ti aspettiamo”.
Giorgio ebbe appena il tempo di abbassare la cornetta che Anna lo assalì: “Che cosa voleva? Perché non me lo hai passato? Che cosa vuol dire –ti aspettiamo-?”.
Clara, che nel frattempo si era seduta interrompendo definitivamente il suo lavoro, osservava il marito con un’espressione indefinibile, non sapendo più che cosa pensare.
“Il tuo futuro sposo sta venendo qui per farci vedere le foto della meravigliosa serata che avete trascorso ieri sera a casa dei tuoi futuri suoceri!”, disse Giorgio lasciandosi cadere di peso nella poltrona rossa a fiori gialli che sua moglie aveva voluto comprare, a forza, ad una fiera dell’artigianato russo, una ventina di anni prima.
“Oh Signore!” esclamò Clara, “ma che cosa sta succedendo?”.
Anna, che continuava a capirne meno degli altri, si alzò e sconsolata si diresse verso il bagno.
“Ma che cos’ha?”, chiese Clara al marito. “E’ da quando si è alzata che è strana. Possibile che non ricordi nulla di quello che ha fatto ieri?”.
“Clara, non ci capisco nulla, sembrerebbe una forma di amnesia. Speriamo che Guido arrivi in fretta e ci racconti se è successo qualcosa di strano ieri sera”.

Al suono del campanello Giorgio si precipitò ad aprire per poter parlare con Guido prima che sua figlia rientrasse in soggiorno.
Il giovane sembrava non credere a quello che gli dicevano i genitori di Anna. Non poteva non ricordarsi della serata appena trascorsa. Si erano divertiti molto, anche perché non si era trattato di una vera e propria cena, ma di una festa per il trentacinquesimo anniversario dei suoi genitori, per cui la casa brulicava di amici e parenti. E Anna, glielo poteva assicurare, si era divertita tantissimo.
“Come è possibile allora che non si ricordi nulla? E non solo della festa, ma di tutta la giornata di ieri! E’ come se si fosse fermata a venerdì”, esclamò Clara.
“Che cosa state confabulando voi tre? Sembrate gli affiliati di una setta carbonara che stanno meditando un complotto anti austriaco!”, disse ridendo Anna entrando in soggiorno.
In effetti Guido ed i suoi genitori erano rimasti, senza nemmeno rendersene conto, in piedi vicino alla porta d’ingresso a parlare sottovoce tanto erano presi dalla formulazione di varie ipotesi che potessero spiegare la situazione che si era venuta a creare.
“Buongiorno amore. Come stai? Hai dormito bene? Abbiamo fatto tardi ieri sera!”, le disse Guido andandole incontro per salutarla con un bacio.
“Anche te con questa storia! Ma insomma, che cosa sta succedendo? Ieri sera ero con Chiara al cinema, oggi è sabato e stasera andremo alla festa di anniversario dei tuoi”, sbottò stizzita Anna riassumendo quello che aveva fatto la sera prima quasi a voler convincere più se stessa che gli altri.
Guido si voltò verso i suoceri con l’aria di chi non ha ancora perso tutte le speranze e tirò fuori dalla tasca della giacca una macchina fotografica digitale. “Ok, allora queste come le spieghi?”, le rispose porgendole l’apparecchio che l’aveva immortalata la sera prima felice e sorridente in mezzo agli ospiti della festa.
“Non ci posso credere! Ma questa sono io? E questo vestito di chi è? Non me lo ricordo”, esclamò esterrefatta Anna alla vista di quelle foto.
“Siamo uscite appositamente per comprare un vestito nuovo per la cena, ieri, tesoro. Naturalmente dopo aver comprato la pentola a pressione!” intervenne sua madre.
“Ti ricordi di avere avuto mal di testa ieri sera, Anna?”, le domandò suo padre.
“Ma papà, se non mi ricordo nemmeno di averla vissuta la giornata di ieri, figurati come mi posso ricordare di aver avuto mal di testa”, si spazientì Anna.
“Già, hai ragione…”.
“Va bene, va bene, cerchiamo di non farci prendere dal panico. Proporrei di aspettare domani e di vedere come va. Se la situazione rimane la stessa porteremo Anna da uno specialista. Mio padre saprà sicuramente consigliarmene uno”, affermò Guido.

Il giorno dopo la situazione, non solo non era migliorata, ma anzi era peggiorata. Mentre per tutti si trattava di un lunedì, per Anna quello era un venerdì, perché i suoi ricordi si fermavano al giovedì precedente. E così i giorni successivi. Mentre gli altri andavano avanti di un giorno, lei, non solo si era fermata a venerdì ma andava indietro progressivamente di un giorno.
Fu visitata dai più famosi specialisti e sottoposta ad ogni genere di esame, ma nessuno riusciva a spiegare l’origine e tantomeno il decorso di questo strano morbo che la portava a dimenticare ogni giorno un pezzetto della sua vita.
Anna sembrava non rendersi conto granché di quello che le stava succedendo anche perché i suoi ricordi andavano a ritroso per cui nel suo cervello non c’era alcuna traccia di questa malattia. I suoi genitori e Guido, invece, erano ogni giorno più sgomenti per l’impossibilità di aiutarla, nonostante tutti gli sforzi.
Cominciarono addirittura a pensare di portarla da qualche guaritore per non lasciare nulla di intentato. La medicina tradizionale non aveva portato ad alcuna soluzione, per cui non restava che affidarsi a qualche santone.

“Non mi sembra una buona idea. L’idea che a mia figlia venga fatta ingerire qualche strana pozione non mi entusiasma proprio!”.
“Che cosa abbiamo da perdere, Clara? Ormai le abbiamo provate tutte e non siamo arrivati a nessuna conclusione”.
“Lo so, ma non mi fido di questi personaggi, sono convinta che siano tutti degli impostori”.
“E tu Guido, che cosa ne pensi?”
“Non lo so, è che secondo me la soluzione di tutto sta nella sera della festa. Se ci pensiamo bene è quella la chiave di volta di tutta questa storia. E’ da quella sera che Anna ha cominciato ad avere questa sorta di amnesia retroattiva progressiva”, disse Guido pensando a voce alta. Era già un po’ di tempo che quest’idea gli frullava per la testa ma non sapeva come portare avanti questa teoria.
“Parlate di me come se io non esistessi. Il fatto che non mi ricordi che cosa ho fatto ieri non vuol dire che siete autorizzati a prendere delle decisioni riguardanti la mia vita al posto mio!”.
Anna si era stancata di sentir parlare di lei, della sua malattia, di possibili cure e rimedi, senza essere interpellata. Ogni mattina appena sveglia, sua madre le raccontava che cosa le era successo e per aiutarla a comprendere le faceva ascoltare delle registrazioni di conversazioni avvenute nei giorni precedenti. Non faceva in tempo a realizzare la sua situazione che arrivava la sera e non appena si fosse addormentata avrebbe dimenticato tutto di nuovo.
“Non voglio andare da un santone, non voglio diventare un fenomeno da baraccone!”.
“Hai ragione Anna”, disse sua madre, “ci dispiace se ti abbiamo dato la sensazione che volessimo prendere delle decisioni al tuo posto. Il problema è che vorremmo tanto aiutarti ma non sappiamo come”.
“Eppure io sono convinto che la soluzione sia nella sera della festa. Noi non siamo stati insieme tutta la sera, mi ricordo che ad un certo punto ti ho persa di vista per un po’, ma non so dove sei andata e con chi ti sei intrattenuta. E visto che tu non mi puoi essere d’aiuto farò una ricerca in questo senso. Mi farò dare la lista degli invitati dai miei genitori, li contatterò uno ad uno e mi farò dire se qualcuno si ricorda qualcosa che ci possa aiutare”.

Nei giorni successivi Guido si procurò la lista degli invitati e passò giornate intere a contattarli e a farsi raccontare come avevano trascorso la serata, se avevano visto o parlato con Anna, se avevano notato qualcosa di strano.
Una signora di mezza età, amica di sua madre, gli riferì di aver incontrato Anna in bagno e che parlando era venuto fuori che alla ragazza era venuto un forte mal di testa. Poiché la signora soffriva abitualmente di mal di testa, le offrì un cachet che Anna accettò di buon grado nella speranza che il dolore le passasse in fretta in modo da potersi godere il resto della serata.
Guido si fece dare una confezione del farmaco che veniva preparato appositamente per la signora e lo portò ad analizzare come suggerito dallo specialista che per primo aveva visitato Anna.
Dalle analisi emerse che Anna era allergica ad una specifica sostanza contenuta in quel farmaco. Tra gli effetti collaterali c’era la progressiva perdita di memoria, ma quello che nessuno si riusciva a spiegare era perché tale effetto durasse così a lungo.

“L’importante è che siamo riusciti a capire l’origine di questa amnesia”, esclamò tutto eccitato Guido quando ebbe finito di raccontare a fidanzata e suoceri quello che gli aveva riferito il dottore.
“Ma esiste una cura?”, domandò Anna.
“Per ora no, però ci stanno lavorando e il dottore è molto ottimista. Dice che nel giro di un mese sarà pronta una terapia sperimentale”.
Era già passato un mese dalla fatidica sera della festa e un mese doveva ancora passare prima che si potesse tentare una cura per Anna.
Giorgio e Clara, seduti l’uno accanto all’altro sul divano, apparivano provati da questa situazione ma cercavano di farsi forza soprattutto per il bene della figlia e di Guido che non si era mai arreso.
Anna fissava il pavimento con uno sguardo assente e sconsolato, ancora un mese a passare le giornate a scoprire quello che le era successo per poi averlo già dimenticato la mattina successiva.
Erano le dieci di sera, Anna si alzò, guardò i suoi genitori e poi Guido: “Sono stanca, vado a dormire. Vi prego non mi dite nulla domani, fate come se niente fosse, assecondatemi fino a quando non sarà pronta la cura da sperimentare. Ho voglia di vivere una giornata normale fatta di realtà e non di ricordi raccontati da altri”.

Cristiana Belcari
Input: Il morbo di Merlino

lunedì 4 giugno 2007

Mi piaci quando taci

“Le parole sono perle
custodite dagli abissi marini,
e aspettano qualcuno,
disposto ad immergersi fino in fondo
per poterle ascoltare.”

Con la testa appoggiata al finestrino vedo scorrere davanti ai miei occhi piccole case dai tetti appuntiti in ardesia, con finestre guarnite da vasi ricolmi di geranei rossi e rosa, dietro alle tendine bianche ricamate, immagino bambini dai capelli biondi e la pelle di porcellana seduti al tavolo davanti ad una ciotola di latte e cereali. Stiamo attraversando l'Austria. E' tutto così pulito, perfetto, ordinato. Vorrei che anche dentro di me fosse così.
Poi una voce mi distoglie da quei pensieri.
– Mamma, mi passi per favore l'mp3, è nella tasca anteriore dello zaino. Grazie.
Alberto ha modi gentili, a volte femminili, è sempre stato un bambino tranquillo e anche nei viaggi lunghi non si spazienta, trova il modo di trascorrere il tempo.
– Ecco qui, Alberto, ma non tenere troppo alto il volume sai che puo' danneggiarti l'udito.
Mentre glielo passo, dietro la sua testa intravedo Francesco con il capo reclinato all'indietro appoggiato allo schienale, gli occhi chiusi, serrati, saranno tre ore che dorme ininterrottamente; non l'ha svegliato neanche il controllore quando nell'aprire la porta dello scompartimento, ha urtato contro il suo ginocchio destro.
Il nostro viaggio è iniziato diverse ore fa, domani arriveremo a Praga, la meta delle vacanze estive di quest'anno.
Ho ancora aperta sulle gambe la guida turistica; riprendo a leggerla, ma si, basta con le elucubrazioni!! Voglio godermi questi giorni, assaporare l'aria di questa città magica, godere della musica che risuona in ogni angolo della strada. Lo desidero da tanto.
– Anche voi a Praga?
– Si.
– Mi presento. Sono Mauro.
– Piacere Lara.
Che sciocca, sto arrossendo, per togliermi dall'imbarazzo dico la prima cosa che mi viene a mente.
– Speriamo che il tempo sia buono.
– Già.
E' seduto davanti a me, ora sorride e porta il suo sguardo fuori, è solo. E' salito alla stazione di Bologna, prima ha letto La Repubblica, poi un libro che non sono riuscita a riconoscere, ora ha in mano un libro di poesie di Pablo Neruda, ne legge alcuni versi, sospira. Mi rendo conto che non posso fare a meno di guardarlo, ha tratti scuri, occhi profondi e neri e delle bellissime mani. Sono un estimatrice delle mani, mi piacciono quelle affusolate e magre, mi trovo a pensare alle sue mani che carezzano la mia pelle e me ne vergogno un po'; perchè sono qui seduta insieme a mio figlio e mio marito, dovrei pensare a loro, guardare loro, una buona madre e moglie fa così; invece mi perdo sempre di piu' nelle mie fantasie, continuo a sognare come un ragazzina. Non so niente di lui e proprio questo mi affascina. Posso investirlo di tutto cio' che vorrei e che non ho il coraggio di cercare e di vivere.
Tengo sotto controllo la situazione; non appena china la testa per la lettura o volge lo sguardo, lo osservo attentamente, alla ricerca di quelle movenze che disegnano il carattere, definiscono la persona.
– Passami l'acqua.
Francesco si è svegliato. Prende frettolosamente la bottiglia dell'acqua guardandomi severamente. E' incazzato, è così evidente, lo riscontro dall'espressione di Mauro: un misto di incredulità e sorpresa.
– Non sono molto comodi per dormire questi treni, finisce che ci risvegliamo piu' stanchi di prima, vero?
– No, assolutamente, ho dormito benissimo.
– Mi presento. Sono Mauro. Quindi anche voi a Praga.
– Andiamo a Praga. Si.
– Tu sei....
– Francesco, mi chiamo Francesco.
Sorrido imbarazzata, le risposte secche di Francesco hanno calato un velo di freddezza incomprensibile. Mauro si alza ed esce, vorrà fare due passi nel corridoio, oppure togliersi da una situazione di disagio.
– Che c'è Francesco? Perchè sei arrabbiato?
– Niente. Perchè, ti sembro arrabbiato?
– Si, e non capisco.
– Lo sai bene, non fare la santarellina. Non sono uno stupido, io. Me, non mi prendi per il culo, hai capito?
– Finiscila, ti prego. Non è il caso.
– Sei sempre la stessa.
Alberto continua ad ascoltare la musica, almeno questa volta è stato risparmiato, o forse ha capito e per questo tiene alto il volume.
Sale dentro me prepotente la rabbia, che insieme alla sconforto, indebolisce l'istinto fino a confinarlo nel mio abisso.
Quando Mauro ritorna, io dormo, anzi faccio finta di dormire. Mi sono presa una vile e breve fuga, dai problemi, dalla vita.
Il viaggio continua, intervallato da brevi frasi di circostanza. Mauro si rivolge sempre a Francesco, pare abbia capito. Scopro dai suoi discorsi la passione per l'arte, la musica, la scrittura. Anche lui è stato a Parigi. Anche lui ne ha subito il fascino. Parla un italiano corretto senza inflessioni dialettali, si muove con delicatezza e garbo. Intervengo solo per rispondere alle domande di Mauro, mi pare di notare una certo compiacimento da parte sua, quando parlo dei luoghi che vorrei visitare a Praga, dell'atmosfera che spero di trovare. La tensione iniziale non si è ancora sciolta e mi scopro piu' silenziosa del solito. Eppure avrei tante cose da dire; da dirgli.
Arrivati a Praga, ci salutiamo augurandoci una buona visita della città.


La prima tappa del nostro viaggio è il quartiere ebraico e le sue sinagoge, considerato che domani è sabato e saranno chiuse.
Josefov è il nome del quartiere ebraico, in onore di Giuseppe II che ebbe il pregio di abolire – almeno parzialmente – le leggi discriminatorie emanate nei confronti degli ebrei. Alla sinagoga Pinkas c'è una discreta fila di visitatori, dopo una ventina di minuti riusciamo ad entrare. Sulle sue pareti sono scritti i nomi degli oltre 77.000 ebrei cecoslovacchi che non fecero ritorno dal campo di concentramento di Terezìn. Conoscevo questo particolare e ora che sono qui immersa nel silenzio rispettoso che si stende nell'aria, ogni nome, ogni lettera impressa sui muri pare urli tutta la bestialità e l'immane tragedia subita. Stento a muovermi, una forza estranea e inaudita mi tiene incollata al pavimento, attonita, impietrita. Quando faccio per voltarmi e cercare Francesco ed Alberto, invece vedo Mauro. Anche lui mi vede, sorride appena e viene verso di me, si avvicina.
– Impressionante.- mi sussurra.
Sto per rispondergli, quando una voce sostenuta, dietro me
– Andiamo dai, ci sono ancora tante cose da vedere.
Francesco è sbucato dal nulla e come una meteora e' piombato su di noi, cristallizzando il tempo.
– Scusaci, dobbiamo andare.
Dopo il vecchio cimitero ebraico, dove le tombe sono sovrapposte le une sulle altre, visitiamo la sinagoga Klausen. Francesco e Alberto sono piu' veloci di me e decidono di aspettarmi fuori.
– Noi usciamo. Ti aspettiamo ad un bar qua fuori. Dacci un taglio, non è che puoi vedere tutto!

– Conosci la leggenda del golem?
Di nuovo lui, con il suo fare discreto, neanche avesse immaginato cosa mi stava passando per la testa.
– Si, pare si trovasse nella soffitta della sinagoga vecchia-nuova, che fosse stato creato dall'argilla e che il Rabbi Low, con i suoi poteri, gli avesse dato vita. Si narra che quando il golem, da servitore fedele, si ribellò al suo padrone, Low dovette distruggerlo.
– Proprio così. Sai, faccio parte di un gruppo teatrale e quest'inverno abbiamo messo in scena questa leggenda.
– Interessante, l'avrei vista volentieri.
– Avrebbe fatto piacere anche a me. Anche se abbiamo parlato poco, mi sembra di conoscere le tue inclinazioni, i tuoi interessi, probabilmente perchè sono anche i miei.
Continuiamo insieme la visita della sinagoga e quando gli dico che dopo andremo sul Ponte Carlo, passando per la piazza di Staré Mesto e la Karlova, si entusiasma e decide di venire con noi.
Dentro la mia testa un groviglio di pensieri, come reagirà Francesco? Lo conosco bene, è convinto che Mauro sia interessato a me, e che io stia facendo la stupida, che gli dia corda. Niente e nessuno, in questi casi, riesce a farlo ragionare. Lui ha già definito la questione, individuato i colpevoli, sputato la sentenza.
Giunti nella piazza della città vecchia, restiamo tutti affascinati dalle guglie delle torri della Chiesa di S. Maria di Tyn che si stagliano nel cielo come punte affusolate di spade, ai vari angoli della piazza musicisti improvvisano melodie con violini, contrabbassi, sax, clarinetti. La luce del tramonto illumina i palazzi intorno alla piazza di tonalità rosse e arancio, aggiungendo calore, ad una città già di per sé intima e suggestiva. Mi piace Praga, sono contenta di essere qui, ora; vorrei che il tempo si fermasse, almeno per un po'. Francesco e Alberto, si incamminano con una certa impazienza. Da quando sono uscita dalla sinagoga con Mauro, Francesco non ha proferito parola, si è chiuso in un silenzio assordante, pesante come un macigno, tiene Alberto per mano, non lo lascia mai; forse per lui adesso è il suo unico appiglio, oppure mi vuole isolare, punire.
Attraversiamo la Karlova, con passo veloce, e giungiamo in prossimità del Ponte Carlo, la zona piu' affollata di Praga. Ai lati del ponte, artisti di strada: chi fa ritratti, chi dipinge, chi suona, insieme a bancarelle improvvisate di souvenir per i turisti. Nonostante il caos, l'atmosfera rimane magica, sarà per la Vltava che scorre sinuosa e docile, con i suoi riflessi ambrati.
Respiro quell'aria e mi entusiasmo per ogni cosa che vedo, come un bambino alle sue prime scoperte; parlo a Francesco indicandogli di volta in volta quello che attira la mia attenzione, lui non risponde, rimane cupo, ombroso; ha lo sguardo di un uomo che ha appena compiuto un delitto, gli occhi rossi, lucidi, sgranati. Mauro scambia con me sguardi che sanno di comprensione. Siamo ormai giunti dall'altra parte del ponte, nella zona di Mala Strana ed è arrivato il momento di salutarci con Mauro, che domani partirà per Berlino. I saluti sono freddi e asciutti, nonostante Mauro si prodighi a smorzare l'atteggiamento indisponente di Francesco. Gli dico che è stato un piacere, gli auguro buon viaggio; in realtà vorrei dirgli molto di piu'. Vorrei dirgli che ho apprezzato la sua discrezione, che mi dispiace non aver potuto condividere serenamente gli interessi che abbiamo in comune, che se ce ne fosse stato il modo e il tempo avrei potuto fargli capire, farmi capire; che è una buona persona e che gli auguro ogni bene. Rimane un ultimo sguardo e proprio quando sto per voltarmi, mi prende la mano dicendomi sottovoce:
– è per te.
E' un foglio ripiegato, che furtivamente infilo nella tasca della giacca, con il timore di essere vista da Francesco. Sono impaziente di vedere che cos'è, ma dovro' aspettare il momento opportuno, che con un clima del genere non si verificherà tanto facilmente. La serata prosegue lentamente, conto di guardare il foglietto stanotte. Aspetterò che tutti dormino e poi mi chiuderò in bagno. Si farò cosi'.
Osservo il soffitto di questa camera d'albergo, sdraiata su un letto che pare avere chiodi al posto dei lenzuoli, tendo l'ascolto per distinguere il respiro di Francesco quando si fa piu' pesante, quando posso sentirmi al sicuro.
Ci siamo. Ho nascosto il foglio tra l'ovatta che uso per struccarmi. Lo apro. E' la pagina strappata di un libro, di poesie:
Mi piaci quando taci
mi piaci quando taci perchè sei come assente,
e mi ascolti da lungi e la mia voce non ti tocca.
Sembra che gli occhi ti sian volati via
e che un bacio ti abbia chiuso la bocca.

Poiche' tutte le cose son piene della mia anima
emergi dalle cose, piena dell'anima mia.
Farfalla di sogno, rassomigli alla mia anima,
e rassomigli alla parola malinconia.

Mi piaci quando taci e sei come distante.
E stai come lamentandoti, farfalla tubante.
E mi ascolti da lungi, e la mia voce non ti raggiunge:
lascia che io taccia col tuo silenzio.

Lascia che ti parli pure con il tuo silenzio
chiaro come una lampada, semplice come un anello.
Sei come la notte, silenziosa e costellata.
Il tuo silenzio è di stella, cosi' lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perchè sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Allora una parola, un sorriso bastano.
E son felice, felice che non sia così.
(P. Neruda)

Roberta Colombini
(ispirazione: versi di poesia.)